Un lunedì qualunque

di Michela Traverso   Ancora a occhi chiusi, mentre la mia mano cerca sotto le coperte quella di mio marito, la mente si accende prima del secondo perentorio richiamo della sveglia e visualizza i fogli dell’agenda. La giornata ha inizio. Mi alzo, mi tolgo il pigiama, mi soffermo un istante di fronte allo specchio: il solito corpo ogni mattino diverso, né meglio né peggio, plasmato da un nuovo giorno. Vado in cucina, preparo la colazione e “drinnnn”, terzo e ultimo squillo della sveglia. Ancora a occhi chiusi, mio marito si accomoda a tavola, con una fumante tazza di tè, biscotti, miele e marmellata ad accoglierlo, mentre io sorseggio un limone spremuto, rimedio a tutti i mali o almeno me ne convinco. Il sapore aspro mi fa tremare, ma sono orgogliosa della mia costanza, allontanando a dopo il secondo step: una fettina di zenzero crudo. Dicono sia un antidolorifico naturale, sicuramente è fuoco vivo in bocca nei secondi necessari per masticarlo e ingurgitarlo. Sono due momenti che definisco al limite del “masochismo” tipico femminile. Mi siedo a fianco a lui e comincio la mia vita “sociale”: parlo, domando, come risposta ottengo mugolii e sbadigli. Dopo circa dieci minuti il mio monologo si trasforma lentamente in un dialogo. Dopo un bacio benaugurale a mio marito e riassettata casa, esco.  Come ogni giorno, affronto l’incubo mattutino: “Traverso, ho le orate in offerta, la rana pescatrice a un prezzo speciale, acciughe nostrane…” Con l’immagine del congelatore strabordante di pesce davanti agli occhi, declino cortesemente l’ invito, maledicendo il giorno in cui mi sono lasciata affascinare da due occhiate fresche. Da quella mattina è sempre la stessa “scenetta” tra le risate dei passanti e i “mugugni” del pescivendolo, deluso dai miei inevitabili  “alla prossima”. Parte così l’avventura della spesa: il giro turistico tra offerte convenienti o truffe indorate, tra bancarelle e negozi. Già carica di sacchetti e sacchettini, alle 9:30 mi concedo una sosta: una tazza di ginseng, una lettura annoiata del quotidiano in dotazione al bar e l’inizio della ricerca “del” lavoro o meglio “ di un” lavoro. Consulto le mail dal cellulare, leggo le offerte sempre più originali, valuto corsi e concorsi, esaminando le competenze richieste esplicitamente e quelle celate tra una parola e un’altra. Prima, cerchi in base alle tue esigenze e, infine, ti plasmi in relazione alle proposte: mi ritrovo così a indossare vestiti troppo corti o troppo stretti o di altri, ma provo comunque. Mi trascrivo sull’agenda mail, numeri telefonici, indirizzi a cui inviare i miei variegati curriculum vitae: “il lavoro della ricerca del lavoro”. Sono inserita nelle “Liste di collocamento mirato” e con una percentuale di invalidità sono stata classificata, inquadrata e per un breve momento ho sentito “garantiti i miei diritti”. Poi ti scontri con la realtà: cerchi le inserzioni specifiche per la tua collocazione e scopri che sono richiesti “inabili perfettamente abili”. Con il solito sconforto post-ricerca, la lista di mail da inviare e le telefonate da fare, torno a casa e mi siedo di fronte al pc con il telefono vicino, candidandomi per l’uno o l’altro annuncio. Esco nuovamente e proseguo le tappe mattutine: posta, banca, assicurazione. Ogni giorno uffici diversi  ma volti uguali con la stessa maschera di falsa cortesia e di reale insofferenza. Terminata la dose di pazienza mattutina, rientro a casa con il solito bus stracolmo, riesco comunque a trovare un angolo in cui incastrarmi e proseguire la lettura di un nuovo libro: terapia  necessaria per ossigenare la mente dall’inquinamento giornaliero dell’anima. Dopo un po’ scopro di aver già superato la mia fermata: pazienza. Varco la porta di casa, evitando vicini bramosi di sparlare dell’uno e dell’altro, e torno di fronte al pc per consultare la posta elettronica: a parte pubblicità o spam, nessuna risposta. Mi preparo il pranzo, organizzo la cena, invio ancora qualche messaggio, faccio le ultime telefonate, arriva così il primo pomeriggio ed è ora di riuscire. Già stremata e con la testa in confusione, inizia la seconda fase della giornata: il mio pomeriggio pseudo-lavorativo. Sono le 14:30,  parto per la Val Bisagno per poi spostarmi in Val Polcevera. Da due anni, in attesa di un vero impiego, mi destreggio con ripetizioni a chiunque me lo chieda. Così trascorro i miei pomeriggi a casa dell’uno e dell’altro, passando da esercizi elementari di matematica alla discussione di funzioni logaritmiche, dall’organizzazione sociale degli antichi egizi ai moti del ’48. Anche se considerarlo lavoro è una battuta comica, è un impegno gratificante. Arriva il tardo pomeriggio. Sono in metropolitana, la mente vaga ed ecco idee confuse si trasformano in possibili incipit per nuove storie. Scrivere è il mio hobby rigenerante, capace di mantenermi psicologicamente stabile, almeno all’apparenza. Estraggo l’agenda, una penna e inizio a cercare una pagina ancora libera a sufficienza per lasciare che una nuova storia prenda forma. Questi sono i miei venti minuti di “Yoga mentale”: libero la mente, riordino i pensieri e alleggerisco le tensioni del giorno. Arrivo a casa, stanca ma rigenerata “dalla mia terapia”, pronta ad affrontare l’ultima parte della giornata. Mi libero dai vestiti e dalla maschera quotidiana e, con un abbigliamento comodo, mi preparo ad accogliere mio marito, di fronte a una tavola “imbandita”. Ancora una controllata alle mail, una lettura veloce alle notizie on-line e spengo ogni contatto con l’esterno: ora è il Nostro momento. Sento la chiave nella toppa: è arrivato! Ceniamo tra aggiornamenti sulla giornata trascorsa, commenti sull’ennesima puntata di Star Trek  e ci coccoliamo con un buon bicchiere di vino per apprezzare ulteriormente queste ultime ore di un lunedì qualunque. Dopo cena ci corichiamo sul divano ad aspettare che inizi uno speciale di Dario Fo sul Caravaggio.  Lui si addormenta, mentre ci coccoliamo. Continuo ad accarezzargli la testa appoggiata sulle mie gambe e a seguire il programma. Ben presto però il suono ritmico del suo respiro mi accompagna in un lento torpore. Dopo un tempo indefinito, ci svegliamo quel minimo indispensabile per raggiungere il letto, coricarci abbracciati e riprendere il nostro viaggio nel mondo dei sogni, con l’augurio di svegliarci l’indomani

Un giorno di marzo

di Annalisa Soldà   Oggi è una giornata di marzo che ricorda ancora l’inverno. Lui è appena uscito. In casa è rimasto l’odore del suo dopobarba. Apro le persiane della camera da letto, cigolano. Mi affaccio e sento gli otto rintocchi della campana e il lamento dei freni degli autobus. Guardo in su, l’azzurro del cielo è interrotto solo dal bianco di un gabbiano. Stringo la vestaglia attorno al corpo e torno in cucina al mio caffè. Sono seduta al tavolo, curva e con le gambe strette, non ho ancora acceso i caloriferi. Guardo l’orchidea bianca sulla credenza e conto per la prima volta i suoi fiori, sono sette. La sposto al centro del tavolo, per ricordarmi che c’è. Separo i bianchi dai colorati e carico la lavatrice, sparecchio, lavo le stoviglie, mi guardo in giro e vedo della polvere sul frigo e sulle mensole che ieri non c’era o che, forse, non avevo visto. Apro il freezer e decido cosa scongelare. Vada per un trancio di merluzzo. Mi siedo alla scrivania e accendo il computer, controllo le email, faccio il punto della situazione.   Sono le 10.30, mi dirigo verso l’hotel. Lo trovo facilmente, è in un palazzo d’epoca. Salgo le scale sino al terzo piano, alla reception c’è il titolare. Esordisco con un “Buongiorno” che viene cordialmente contraccambiato. L’uomo ha l’aria di chi è di buonumore per dovere. “Ho chiamato ieri per fare una prenotazione, ho parlato con una sua collega.” Continuo io. Lui mi fa domande: il nome dell’ospite, le date. Gli spiego che l’ospite è un insegnante della scuola di scrittura a cui sono iscritta e che ieri ho inviato un’email. Mi dice che aveva incaricato un suo dipendente di rispondermi  e si affretta a cercare fra le email inviate. “Hmm, vediamo se devo fare strage di dipendenti.” Si gratta la testa, si aggiusta gli occhiali mentre controlla la cartella Posta Inviata. “Vediamo… nessuna email indirizzata a lei. Oggi mi sento cattivo, lei cosa dice devo essere severo con i miei dipendenti?” Intanto scrive. “Credo che si debba essere clementi. Capita a tutti di sbagliare”.  Rispondo con un cliché e mi levo d’impaccio. “A posto così, le ho confermato personalmente la prenotazione, controlli fra le sue email.” Ringrazio, saluto e vado via.   Ore 11.00, arrivo al supermercato. Le corsie si percorrono velocemente, ci sono poche persone che fanno la spesa a quest’ora, per lo più pensionati, prendo dalla borsa il volantino dove avevo annotato le offerte del mese e inizio la caccia al tesoro. Il carello si sta riempiendo pericolosamente, cerco di calcolare mentalmente il peso totale di ciò che ho scelto e aggiungo solo poche cose. Pago ed esco. Cammino facendo attenzione a mantenere la schiena  dritta per distribuire uniformemente il peso delle borse su entrambe le spalle e cercando di ricordare a che ora passerà il prossimo 35. Passo accanto all’entrata del teatro diretta verso la fermata dell’autobus. Sotto il porticato, seduto sui gradini c’è un uomo che suona la chitarra. Ha il cappuccio della giacca sulla testa ed è curvo sulle corde. Le note mettono in disordine i miei pensieri e mi costringono a fermarmi ad ascoltarlo. Il brano ha il ritmo della musica Andalusa, è una musica veloce, malinconica e calda. Lui termina il brano, io cerco gli spiccioli e li lascio cadere nel piatto. Lui mi guarda e io gli dico: “Bravo.” Inizia un nuovo brano. Io appoggio le borse a terra e resto in ascolto. Terminata anche questa esecuzione, mi fissa in silenzio, allora gli chiedo: “È un insegnate di musica?” “No. Facevo il camionista, ora sono rimasto senza lavoro. Ho sempre amato suonare e mi sono detto perchè non provare a fare l’artista di strada.” Non dice più nulla, allora io incalzo: “Suona bene, è molto bravo.” L’uomo si scosta dalla testa il capuccio. Mi racconta che ha due figli e che è un esodato, io gli tendo la mano, gli dico il mio nome e gli auguro una buona giornata. Mentre sto per sollevare le borse mi fermo un istante e gli chiedo: “Come si intitola il brano che stava suonando quando sono arrivata?” “Ah, questo?” Accenna qualche nota e poi sorride come se un ricordo piacevole gli avesse appena riempito la mente: “Si chiama Recuerdos de la Alhambra”.   A casa è la routine: padella, olio, merluzzo. Mangio, sparecchio, pulisco piatti e fornelli, decido cosa cucinare per cena. Ritiro la biancheria asciutta, stendo quella bagnata. Guardo di nuovo la polvere sul frigo e le mensole e penso che la leverò domani. Ripasso il Simple Past e il Present Perfect che in italiano traducono entrambi il passato prossimo.   Sono le 17.30 scendo le scale del mio palazzo. Al piano terra incontro la ragazza che si è trasferita qui il mese scorso, mentre esce di casa con un rastrello, una pala e una scatola di semi. Credo che sia Olandese e spero che abbia intenzione di coltivare dei tulipani nel suo giardino. La saluto e suono il campanello dell’interno accanto al suo, mi apre la porta Alessandro. “Ciao”. Mi dice e si scosta per farmi entrare. “Ciao Ale, come è andato oggi il compito in classe di matematica?”. Gli chiedo mentre sono già nell’ingresso di casa sua. “Mah. Difficile. Vedremo.” Chiude la porta con una leggera spinta. “Hai già iniziato a fare gli esercizi di inglese?” Continuo seguendolo lungo il corridoio. “No. Ti stavo aspettando per iniziare”. Sua madre è in cucina, la saluto, lei mi chiede se può lasciare la TV accesa, le risponde suo figlio, borbottandole di abbassare il volume e chiudendo la porta. Siamo nella sua stanza, mi siedo accanto a lui, alla sua scrivania, e iniziamo. Dopo il primo esercizio mi è chiaro che è necessario ritornare sulla grammatica. Quest’anno, mentre io percepivo il passare delle stagioni attraverso i cambi di guardaroba, Alessandro si è allungato, ha cambiato voce e ha iniziato a farsi la barba. Dopo due ore mi congedo: “Ci vediamo martedì prossimo.”   Sono davanti alla porta di casa

Appunti, tra lettere e figure. Personale di Francesca Biasetton

Quando incontro Francesca, non so se la porta si aprirà sull’ingresso di casa sua o sulle stanze del suo atelier. “Tutte e due”, mi dice, e vengo accolta in una casa-studio luminosa, sui toni del bianco e del grigio. Francesca Biasetton è un’illustratrice e una calligrafa, non una grafologa, sottolinea sorridendo e facendo allusione alla scarsa conoscenza che ancora esiste in Italia attorno alla materia, nonostante l’Associazione Calligrafica Italiana, di cui è Presidente dal 2011, sia attiva da più di vent’anni. La calligrafia è argomento sfuggente, semplice e complesso al tempo stesso. Bella scrittura che si manifesta nel rispetto di regole di proporzione, codice di segni, che sono anche suono e significato, non esclusiva forma, né semplice contenuto, regolarità e caso. Il segno che il tiralinee lascia sul foglio non è del tutto controllabile mi spiega Francesca, perciò, anche se si interviene sulla pressione esercitata sulla pagina o sull’inclinazione dello strumento, il risultato finale non è completamente prevedibile. Questo argomento mi incuriosisce, e mi incuriosisce anche il tiralinee, oggetto di cui ho forse un vago ricordo scolastico: “è quello strumento che si trova nelle scatole dei compassi e che nessuno sa come usare”, chiarisce Francesca. Un rapido sorriso – mi accorgo in quell’istante che tutta la casa è intonata ai suoi occhi grigi, nero inchiostro più bianco pagina, mi piace pensare – e sparisce nella stanza accanto. Ritorna con un tiralinee e diversi pennini, per mostrarmeli. L’unità di misura è lo strumento mi spiega, perciò se si scrive con un pennino a punta tronca o con un calamo arabo, le proporzioni cambiano. Per imparare si lavora in trasparenza, utilizzando la falsariga, cioè un foglio rigato posto sotto al foglio bianco sul quale si intende scrivere. Spesso gli allievi trovano scuse per non prepararla, ma è un passaggio essenziale. Penso che questo deve avere a che fare con l’abitudine alla velocità, con l’aspettarsi subito il risultato facile, quell’aderenza quasi perfetta tra intenzione e risultato cui ci hanno viziati tasti, leve e interruttori. Ma la Calligrafia è una disciplina che ha a che fare con la lentezza, con la cura, con le mani; nella lettera scritta a mano si compie e si rinnova la perfezione del gesto che si fa parola, prima parlata, poi disegnata sulla carta. Ma che cosa accade quando, progressivamente, la scrittura ritorna al puro segno? Francesca Biasetton si è dedicata anche all’asemic writing, particolare forma d’arte che pone chi osserva tra il leggere e il guardare. Forma d’arte astratta?, chiedo, o espressione pregrafica? Omaggio alla scrittura illeggibile-magica, all’indecifrabile, o ricerca di un modo altro della comunicazione? Tutte queste cose insieme, risponde, e mi racconta il suo metodo Io parto dal testo e procedo per trasformazioni successive. Lavoro per via di togliere, finché non resta che il segno Non posso fare a meno di visualizzare una lunga fila di rapidissimi fotogrammi, che riportano le scritture, i loro diversi alfabeti, al seme iniziale, a quel segno primigenio, comune forse, che trasformò per la prima volta un pensiero pensato in una scrittura scritta, un’idea nella sua orma. Francesca mi mostra i suoi taccuini, alcuni dei quali saranno esposti in Officina Letteraria in occasione della sua personale. Ne ha sempre uno con sé, su cui annota frasi, parole, immagini. Non sono i classici “taccuini d’artista”, mi spiega, non li ha mai compilati pensando che un giorno qualcuno potesse sfogliarli. Contengono idee in seguito diventate concrete, spunti rimasti tali e molti disegni realizzati con la penna a sfera, strumento semplice e versatile, cui è molto affezionata. Lì dentro ci sono probabilmente gli elementi primi di tutte le sue opere, dalle illustrazioni agli abiti scritti a mano per Midali, dall’Abbecedario, Premio Andersen 2003, agli appunti per logotipi, lettering per film, video, libri… Parliamo ancora dell’Iran, dove in occasione di “Incontri”, a Teheran, ha conosciuto la calligrafa Golnaz Fathi: dieci giorni di straordinaria sintonia e di lavoro a quattro mani, che Francesca descrive come un dialogo sulla stessa tela. “Mia nonna era di Alessandria d’Egitto, parlava l’Arabo”, aggiunge. “Mi ha lasciato questo”, indica un mobile accanto al tavolo dove siamo sedute, “insieme alla curiosità per quella lingua e il suo alfabeto”. Lingua e scrittura che ha poi studiato per anni. La conversazione ha qualche pausa – due diverse forme di riservatezza, o forse è la naturale punteggiatura di un discorso che sta per chiudersi: tre gocce di inchiostro che il foglio accoglie. Ringrazio Francesca e ci salutiamo. Un sorriso, occhi grigi: nero inchiostro più bianco pagina, mi piace pensare. In occasione della mostra personale Appunti, tra lettere e figure, che inaugura in Officina Letteraria sabato 12 dicembre, Francesca Biasetton terrà il laboratorio Scrivo (a mano) quindi sono (io), per ritrovare il tempo e il piacere della scrittura manuale, e per un primo approccio alla calligrafia. http://www.biasetton.com/biasettonwebsite/ http://www.officinaletteraria.com/maestri/francesca-biasetton/  

“Lacci Mattutini”: racconto di Marta Traverso.

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “Lacci Mattutini” un racconto di Marta Traverso. Piove. Ho fretta. Sono così nervosa che ho scordato di mettere lo zucchero nel caffè. Riunione alle 9.30 e chissà quanto dura, psicoterapeuta alle 12.45, dentista alle 16. Magari dovrei pranzare, in mezzo a tutti questo? Potrei mangiare una brioche per strada, al volo, mentre ritorno in ufficio. Se smette di piovere, che brioche e borsa e ombrello e ho solo due mani. Aspetta, però, ne avevo un’altra da fare oggi… cos’è che mi ha chiesto Alessio, mentre stavo uscendo… mettere a posto il file, il file di… ma perché non mi viene… sempre così fa, mi vede infilare il cappotto e chissà come mai gli torna in mente una cosa assolutamente da fare entro ieri. Perché tutto oggi deve succedere? Ho una lista di cose da fare che si srotola come una pergamena, finisce che ci inciampo sopra. Cioè, non ho una lista delle cose da fare, non in senso materiale, ma se ne avessi una, la prima cosa che scriverei è di compilare tutte le mattine una nuova lista delle cose da fare, invece di sforzarmi (tutte le mattine) a ricordarle una per una sotto la doccia, e spremo così tanto la testa che alla fine metto il balsamo sulla spugna e il bagnoschiuma nei capelli. La mia testa, sì. Se dovessi disegnarla sarebbe un fazzoletto con tanti nodi, tutto allacciato e avviluppato su se stesso, un nodo per ogni cosa che devo tenere a mente. Una nuvola di post it immaginari tenuti insieme da laccetti colorati. Che poi, a dirla tutta, i lacci sono una gran perdita di tempo. Mi sveglio alle 6 e riesco comunque a uscire in ritardo: colpa dei lacci. Come, non la sai? Quella dei tre lacci mattutini, l’incubo di noi donne un po’ casual e sbadate? Numero uno: i laccetti del reggiseno. Una passa l’infanzia a sognare che le crescano le tette, e poi al primo impatto con il reggiseno è un disastro. Soprattutto se non ha mai fatto le prove con uno di sua mamma. Troppe azioni in contemporanea: metti entrambe le mani dietro la schiena, tienilo fermo che non scappi, inarca testa e collo più che puoi, guarda allo specchio a vedere se almeno una linguetta la infili giusta, e quando infili le successive bada bene che la prima non ti scappi. Finché ho potuto, ho chiesto che mi comprassero reggiseni senza laccetti, quelli che si infilano dall’alto. Una figata. Poi le tette mi sono cresciute davvero, ed è iniziato il dramma. Numero due: le scarpe. Lo confesso, ho la manualità di un chilo di pastafrolla. Ho imparato ad allacciarle quando avevo i piedi così lunghi che non fabbricavano più scarpe con lo strap del mio numero. Nove anni o giù di lì. Ero già nella ribellione preadolescenziale in cui rifiutavo di indossare le ballerine, troppo da femmina. Solo scarpe da tennis, possibilmente Lelli Kelly con la suola che si illumina di rosso. La trafila nodo-gassa-doppio nodo ve la risparmio, che ci metto di più a ripeterla che a farla. Tre: hai presente i cumuli di spazzatura che “oggi non ne ho voglia, la butto domani” finché non diventano montagne e la cucina è pervasa di un odore impronunciabile? E hai presente quando, per spendere meno, hai comprato i sacchetti dell’immondizia con quei fastidiosi laccetti che penzolano sul fondo, che devi strappare e poi annodare tipo fiocco regalo, e premere perché esca fuori l’aria, e di quella volta che tua madre di ha raccontato che la cugina dell’amica di una sua amica si era dimenticata che il sacchetto era pieno di scatolette di tonno, e ha premuto troppo forte e la sua mano destra non ha fatto una bella fine? Che m’importa, dirai. Io sono nata mancina. Se anche la mano destra si spezza in due con un colpo di latta, non è una tragedia.

“La vasca”: racconto di C.T.

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti. “La vasca” un racconto di C.T. La vasca da bagno è una coperta concava in cui depositare parti del mio corpo che ancora sento rimbombare di eco. Le picchietto con indice e medio, come si fa con le pareti di cartongesso, come farebbe un medico in cerca di qualcosa che non va. Loro emettono quella che è la conferma ai miei dubbi: ci sono ancora molti vuoti dentro di me. L’acqua calda e questa vasca servono a questo. È quasi automatica e abbastanza scontata l’immagine dell’utero che mi attraversa i pensieri. Questa vasca da bagno mi contiene, costruisce intorno a me le pareti che da sola non sono ancora brava ad alzare. Utero.  Abbasso la sguardo e osservo il mio corpo sotto la trasparenza dell’acqua che ho deciso di non mischiare al sapone: la volevo così, come una lente di ingrandimento attraverso cui scrutarmi. Ci sono i fianchi, mai abbastanza stretti come li vorrei. Le braccia lunghe e magre. Le mani affusolate. I polsi. Le caviglie. Le gambe respirano felici nello spazio fluttuante e, nello stesso tempo, ben definito, in cui le lascio galleggiare. E dentro alla mia pancia, lui: l’utero. Quello che non so se userò mai. Non lo so. Perché finché continuo ad avere bisogno della vasca da bagno, non so se è il caso. La verità è che, per ora, mi sento più simile a materia contenuta che a contenitore. Sono cose a cui penso, ultimamente. Ultimamente vedo certe pance tendersi su corpi di ragazze che conosco. Non le mie amiche, no. Loro sono come me, stanno ancora cercando troppe cose per pensare di essere già arrivate. La pensiamo così oggi, prima dobbiamo cercare. C’è tempo. O forse per noi ce ne vuole di più, perché tutto, oggi, è più complicato. Ho sentito dire che adesso l’età media delle partorienti è sui trentotto. Non so se è vero. Mi giro a pancia in giù. Credo che la questione si possa mettere in questi termini: il mondo oggi è bello collegato, aperto, spazioso per certi versi. Ma anche bello spaventoso. A volte fantastico di essere una donna del milleottocento. Una di quelle che studiava a casa, ricamava sui fazzoletti, si sposava e passava direttamente dalla tutela paterna a quella maritale, fine della storia. Altro che cercare la propria strada. È quasi mezzanotte. Infilo la testa sotto l’acqua, spalanco la bocca: la materia liquida è subito pronta ad invadere il mio spazio interno. Io chiudo gli occhi e le urlo contro, sprigionando decine di punti interrogativi sotto forma di bolle d’aria. Se non lo faccio credo che la tensione sarà troppo alta e che stanotte non riuscirò a dormire. Il prezzo sarà qualche capillare rotto intorno agli occhi a causa dello sforzo fatto per buttare fuori tutte le particelle di ossigeno che prima erano dentro. Durante il processo di espulsione, guardo in faccia quel futuro che mi fa tanta paura. Lui si materializza in immagini velocissime e spintonanti. La laurea, la ricerca del lavoro, le case condivise, le amiche partite, quelle rimaste. La testa riemerge e aspira aria e poi di nuovo sotto, sotto a chi tocca: comprare il pane ogni giorno in una lingua che non è la mia, sapere che appena parlerò, nonostante tutti i miei sforzi, gli altri capiranno che vengo da un altro paese, che sono vulnerabile. Un altro vuoto, un altro respiro e un altro urlo: le storie interrotte perché mi dispiace, ma Berlino è troppo lontana e io non so nemmeno in quale parte del mondo sarò nei prossimi tre anni. Le amiche partite, le amiche perse. La spesa tutte le sere, che se non ci pensi da sola stai certa che morirai di fame. E poi i rumori nuovi della tua nuova casa, i soldi dell’affitto, i soldi chiesti ai tuoi, il numero dell’idraulico. La domanda chi sono?, la risposta ho paura. Di cosa ho paura? Di diventare me stessa e nello stesso tempo di non diventarlo. Di non diventare nessuno. E poi ho paura di Parigi, ma anche di Milano. Della febbre alta e nessuno che ti compri le medicine. Delle domeniche pomeriggio. Della neve. Di stare sola con me. Sola. Con me. Ecco, il vortice di bolle trasparenti e di fantasmi ha raggiunto l’apice. Ora c’è silenzio. Avvolta dalla quiete, svelta, allungo un braccio, afferro l’asciugamano e mi alzo da quell’acqua pericolosa. Dentro di lei adesso nuotano, come tanti piccoli squali, quei miei pensieri dai denti appuntiti. Ne esco fuori. Inizio ad asciugarmi. So già che stanotte dormirò, perché ho guardato in faccia il drago da cui sono scappata tutto il giorno, a partire da questa mattina, quando mi sono svegliata. Ho fatto il caffè. Mi sono vestita. Infilata il casco a cavallo dell’avambraccio. Tirata dietro la porta. Girato i giri, tre, della

“Una giornata così”: racconto di Miria Cresci

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti “Una giornata così” un racconto di Miria Cresci. Guardo i numeri rossi nel buio: le 05:50. Ancora tempo per un piccolo sogno prima di entrare nella realtà . Realtà di suoni, di rumori che, nel fine settimana, arrivano più rari e lontani, mentre aggiorno la scheda mentale sulla giornata. Accendo la radio, la mia transizione fra sonno e veglia. L’immersione nelle notizie é interesse, dipendenza, necessità di uscire preparata. La finestra si apre sul cielo che,  nuvoloso o chiaro, influenza l’abbigliamento come la temperatura. – Il tuo è un freddo introitato, una convinzione – ha detto Nella. Sarà anche vero ma ho rinunciato a sfidarlo, vince sempre. Un po’ di restauri, vestizione rapida poi via, seguendo gli impegni della giornata. Non sempre energia positiva, anche avvii difficili e nervosi in cui banalmente decidere come vestirsi é una sfida, senza voglia di parlare o vedere alcunché, tantomeno uno specchio. Gli specchi riflettono sempre più di quanto vorremmo. Oggi palestra per un paio d’ore. Più bello correre nel verde ma nessun parco è disponibile però, un  tapis roulant con vista sulle chiome degli alberi aiuta. Ho imparato a restringere l’obiettivo sulla porzione da salvare, il resto è escluso, finchè riesco. Nel pomeriggio corso di inglese che seguo puntualmente e abbandono alla dimenticanza appena le lezioni finiscono. Mi sgrido ma persevero giurando che cambierò. Passo dal mercato. Girare fra i banchi colorati è un  piacere visivo che il supermercato non dà. Poi a casa, seguendo l’ispirazione sopraggiunta o regolandomi sulle scorte, a preparare il pranzo. Cucinare è creativo, mi rilassa, che sia una sperimentazione nuova o qualcosa che preparo da sempre. Mattinate festive invernali piovose e fredde cambiano colore in un impasto morbido che prelude a una torta salata o si dimenticano tritando frutta secca e affettando mele per la preparazione dello strudel. Oggi spaghetti con bottarga, profumati e veloci. Telefono che squilla, più antipatico quando sto per scolare gli spaghetti, ma essendo spesso fuori chiamano a quest’ora. Del resto anche al ristorante parli a tavola, ha detto un’amica. È vero… mi adeguo. In agenda ho segnato una conferenza che mi interessa e dopo inglese posso arrivare in tempo. Sarebbe più produttivo incanalare tempo e attenzione su poche direttive o una direzione principale, ma da sempre sono incuriosita e interessata a tanti argomenti . Pieno, vuoto. Riempire lo spazio per abitudine, per aiuto, perché il vuoto non si carichi d’ombra. Una giornata per muoversi, parlare, ascoltare, leggere, mettere la testa in qualcosa e nascondere che è sempre più facile camminare sul tappeto che…farlo volare.

“L’attesa”: racconto di Giovanna Olivari

Officina Letteraria e UDI. Una donna, un giorno è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre scorso. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni.  Ogni lunedì e ogni venerdì saranno pubblicati su questo Blog i testi delle sedici partecipanti.  “L’attesa” un racconto di Giovanna Olivari L’attesa.  È l’emozione più emozionante. Uno stato magico. L’attesa. Di qualsiasi cosa. Comunque vada. Dell’amore, per esempio. Lo costruisci, giorno dopo giorno. Messaggi, foto, parole, telefonate, lettere, pensieri, allusioni. E se poi l’altro risponde e sta al gioco… Che emozione! “Castellaria” mi chiama la mia amica Anna.  Embè? Mi costruisco castelli in aria. E allora?  Intanto io, Castellaria, ho vissuto una settimana a Marciana in uno stato di grazia. Mi sono goduta quello che comunque avevo, ed era già molto. Natura, affetti,  amici, figlio, nuora, casa, terrazza, radici.    Le mie radici. Il mio mare. I miei profumi. Alloro, rosmarino, nepitella, giuderba, menta, basilico…. La mia isola. E intanto costruivo il sogno, con pacatezza, con meticolosità, gesto dopo gesto, parola dopo parola, osando sempre un po’ di più, col fiato in sospeso attendendo la risposta, e su quella frenando o accelerando, di volta in volta. Così costruivo il sogno e la dolcezza mi riempiva il cuore.  Che importa che succederà quando tornerò, quando lo rivedrò, dal vero! Innamorarsi con il tumore. Innamorarsi con un cancro in seno, con la morte nel cuore, e nel cuore l’amore. – Lo fai – mi dicevano le amiche –  per spostare la tua attenzione, per nasconderti la paura, uno struzzo, anche stavolta, di fronte a una cosa grave come il tumore, per scongiurare la paura della morte, della chemio, della radio, dell’intervento, dell’anestesia, della tetta ferita, deturpata… Oddio! Ho un inizio di morte nella tetta, e io sto a pensare a quanta me ne  toglieranno, a come la rovineranno!  – Signora, non si preoccupi!  Ne ha così tanta!- Il professor Friedman, il chirurgo,  sorride con ironia e tenerezza alle mie insistenti richieste su “quanta me ne toglierà?”. Bell’uomo, sulla sessantina, alto, snello, capelli folti, bianchi, sicuro, deciso, si muove da padrone. Mi conosce. È già intervenuto, otto anni fa, su quella stessa tetta, a prelevare un “granello”, ma era negativo. Sospetto, quello sì, ma negativo. Da togliere, per sicurezza, quello sì, ma negativo. Oggi ha faticato pure lui a trovare, dall’esterno, il punto che aveva inciso a suo tempo.  Seno integro, pelle liscia, uniforme, come prima. Ottimo lavoro, suo e del suo assistente che ha “cucito”. – Punti “sansevero”, estetici –  mi aveva assicurato. Gliene sono grata. – Insieme al sorriso, il seno, adeguatamente sostenuto e supportato, è il meglio di me. – Sorrido con civetteria, dicendoglielo.  Mi guarda. Non capisco se con stupore o compassione. Forse non può immaginare che alla mia età sono tornata ragazza e ho voglia d’amore, anche fisico, e che mi sto di nuovo innamorando, e che di quel seno grande, morbido, liscio, ne ho bisogno più che mai.

L’Allenamento dello scrittore: l’esperienza di Federica Kessisoglu

di Federica Kessisoglu. Avete mai provato a stare davanti a un foglio bianco? Ci si sente sbiadire a poco a poco: il bianco si diffonde. Ci si ritrova con polpastrelli bianchi, sopracciglia bianche, pensieri bianchi. Un bianco timore ci prende per la gola e riusciamo a scrivere solo parole bianche affollate su quel foglio bianco. Allora ci si deve allenare, farsi fiato e muscoli. Occorre svuotare per riempire, osservare e osservarsi senza paura e senza giudizi. Occorre ascoltare in un modo nuovo. Ascoltare il proprio respiro, ascoltare il proprio corpo dall’alluce ai padiglioni auricolari, ascoltare il proprio cuore che batte e il saliscendi del diaframma. È necessario toccare e annusare, imitare e affidarsi. È necessario denudarsi per arrivare alla semplicità di gesti e parole. È necessario denudarsi per arrivare alla semplicità di gesti e parole. È necessario stare con i piedi ben piantati a terra per poter spiccare il volo. Non bisogna aver paura di emozionarsi, non bisogna aver paura di accettare doni, non bisogna aver paura di sorridere e di guardare veramente chi ci sta di fronte. L’allenamento dello scrittore è stato tutto questo e molto altro che non si può descrivere, ma solamente vivere nella propria intimità. Alla fine ho scritto su un foglio bianco, parole blu come pensieri inediti.   Maggiori informazioni su L’Allenamento dello Scrittore!  

l’Allenamento dello scrittore: l’esperienza di Michele De Negri

di Michele De Negri. Ho fatto da cavia. Ed ha funzionato, per quanto mi riguarda. Sono stato invitato alla lezione sperimentale de L’allenamento dello scrittore, un nuovo corso che prenderà piede (letteralmente) a Officina Letteraria a partire dal 3 Dicembre. Mi sono presentato in abbigliamento poco consono all’attività ginnica, e ho apprezzato di poter consumare il riscaldamento comodamente il felpa e jeans. Niente tute o scarpe costose: e questo è il primo punto a favore dell’allenamento letterario. Abbiamo avuto un assaggio di tutti i 4 moduli che comporranno il corso: bioenergetica, relazione, suggestioni video e lavoro sulla voce. Ci riscaldiamo. Muoviamo il corpo, ci inseguiamo e ci imitiamo. Respiriamo. Dalla mente al corpo. A metà degli esercizi, il gruppo si divide in due: metà è isolata, e non messa a conoscenza delle azioni degli altri atleti. Io sono in questa metà. Ci richiamano nella stanza, e assistiamo a una performance. Una mimesi, in un certo senso, messa in atto dagli altri partecipanti: cercano di emulare ciò che hanno appena visto lontano dai nostri occhi. Guardiamo gli atleti, che agiscono ciò che hanno visto: che hanno interpretato. Dal corpo agli occhi. Ora noi interpretiamo ciò che abbiamo visto. Copiamo una copia, traduciamo una traduzione. Dagli occhi alla mente, di nuovo. E ora il passaggio più sorprendente: dobbiamo scrivere. Certo, perché siamo pur sempre a Officina Letteraria. “Scrivete cinque righe, non di più, su ciò che avete visto. Su ciò che avete capito”. In questo momento trascriviamo la nostra traduzione, che è a sua volta l’interpretazione compiuta da un’altra persona, di qualcosa che non abbiamo visto. È uno studio dell’ignoto guidato, che va dai piedi alla carta. Dal corpo, agli occhi, alla mente, alla penna. E ritorno. Dobbiamo ridare corpo alla mente e alla scrittura, perché è un allenamento, ed è fisico. Quindi leggiamo; dalla penna agli occhi di chi legge, alla voce che dà corpo alla nostra mente. Il movimento di cinque persone, che diventa cerchio, poi occhio che guarda, poi mente che traduce; poi occhio che vede, mano che scrive, bocca che legge. È un circolo piacevole nel quale perdersi. E il momento della lettura ad alta voce è davvero catartico e necessario: per sentire vibrare nell’aria ciò che abbiamo provato. Una nota di merito va al sottofondo musicale. All’età di quindici anni frequentavo un corso di disegno. Il primo giorno, la direttrice ci disse: “noi lavoriamo con la musica; non perché crediamo che possa essere di ispirazione, ma perché aiuta a focalizzare”. La frase mi rimase molto impressa, perché sfatava il mito di mus(ic)a ispiratrice; ma è una frase vera. La musica concentra, dà un inclinazione ai nostri pensieri. Respirare, guardare, scrivere e leggere sopra le note di David Lang è certamente un’esperienza piacevole. La musica bussa alle orecchie e arriva nella testa, dove si stanno mescolando tante cose: movimenti, visioni, interpretazioni, scritture. La musica inclina il piano, e fa scontrare tutto, si unisce in un’unica massa critica. E esce qualcosa, perché è troppo per poter stare stretta tra le pareti del cranio. Dal corpo, agli occhi, alla mano, per le orecchie alla voce. Ho partorito un dialogo tra una mano e una testa. Non so se sia una buona cosa, ma è uscita. Meglio fuori che dentro, dice Shrek, e sono d’accordo. Le parole vanno sudate, come le tossine e liquidi durante una maratona; la parole vanno espulse con un allenamento: quello dello scrittore. Maggiori informazioni su L’Allenamento dello Scrittore!

L’Allenamento dello scrittore: l’esperienza di Marta Traverso

di Marta Traverso. Posso confessarti un segreto? La risacca mi fa impazzire. Passerei ore a guardarla. Quel movimento leggero del pelo d’acqua sui sassolini, una manciata di centimetri avanti, una manciata indietro. Così uguale, scandita, ripetibile. L’aria entra ed esce dai nostri polmoni con lo stesso ritmo: per questo, respiro più volentieri vicino al mare. Come se l’aria, lì dove si fa più bagnata, la si potesse toccare. Nel resto del mio tempo, prendo a esempio quei pesci tanto cari a David Foster Wallace e chiedo in giro dov’è aria, cos’è aria. Solo che, a differenza dei pesci, non ho branchie che respirino senza chiedermi il permesso. Ho due narici e una bocca, come te, e non saprei dire cosa colleghi una all’altra, finché una briciola di cracker scavalca l’epiglottide – che bel suono ha, epiglottide – e mi fa tossire, e per un attimo i miei apparati interni si confondono, mi disorientano. Tutto questo centra abbastanza, con la scrittura. Ventisei lettere, una manciata di segni d’interpunzione, un numero indefinito di vuoti riempiti da uno spazio bianco: così uguali, scanditi, ripetibili. Quella stessa risacca può incattivire tutt’a un tratto, si gonfia nel vento, si lascia sommergere da fiotti di schiuma senza un senso e riduce le spiagge a una crosta. Quella risacca è un raffreddore, il naso che perde il suo ritmo e alluviona un continuo starnutire. Nessuno mi aveva avvertita, prima di Elisabetta Marasco, che finché respiro con la bocca chiusa l’aria cattiva mi continuerà a circolare dentro. Come i momenti in cui l’idea per una storia c’è, e le parole per dirla, sta tutto lì, eppure. Esiste al mondo un essere più spaventoso di un foglio bianco? Nel mio primo Allenamento dello scrittore ne ho tenuto uno tra le mani, un paio di minuti, passato di mano in mano, quelle di Cesare Viel e delle compagne e compagni accanto a me. Il foglio bianco si è accasciato sulle mie ginocchia, è come con gli animali domestici, hanno più paura loro di te che tu di loro, ma non lo sai. Dopo qualche istante, ha preso a respirare al mio stesso ritmo, quello della risacca mentre non piove. Poco dopo, ma ancora non lo so, camminerò guidata dalle Augenblick con il passo lento della risacca. Si è addormentato, ora, e un foglio bianco che dorme fa meno paura. Potevo approfittare di lui a mio piacere: farne una pallina, coriandoli, un aeroplanino, o vomitargli addosso colpi di grafite che diventano poesia. Invece no. La risacca era calma. Gli ho accarezzato i capelli, al foglio bianco. Uno dei gesti più intimi che esistano. Quante persone, tra quelle che conosci, ti concedono di accarezzare loro i capelli? Io l’ho fatto, erano castani, cortissimi, non lavati da un po’. Erano i capelli di un personaggio che non avevo mai visto prima. Se non avessi respirato in quel modo, non lo avrei visto mai. Ho fatto piano, per non svegliarlo. Ho respirato ancora, e quel foglio è diventato lui, senza darmi il tempo di accorgermene. Quando l’ho lasciato andare, ha sollevato un ciuffo di aria. Maggiori informazioni su L’Allenamento dello Scrittore!

L’Allenamento dello scrittore: l’esperienza di Camilla Tomiolo

di Camilla Tomiolo. Meg Ryan aveva paura di volare. Non so perché quest’immagine si fa presente nella mia mente, mi dico. È un fotogramma di un film degli anni novanta che guardavo da bambina, quando avevo l’influenza. Comunque, Meg Ryan aveva paura di prendere un aereo, l’aereo per Parigi, l’aereo che avrebbe cambiato la sua vita, in meglio. Siamo tutti in cerchio, senza scarpe, stiamo con una mano sulla pancia e una sul petto. Respiriamo. Ci concentriamo sul sù e giù. In silenzio. Così in silenzio che perfino il tic-tic dell’orologio di qualcuno sembra un rumore fortissimo. Non sembra nemmeno di essere a Officina Letteraria, penso. Stiamo facendo Bioenergetica. C’è una insegnante, Elisabetta Marasco, che ci parla e si prende cura dei nostri corpi dicendoci di fare cose semplici, così semplici da sembrare strane. Tipo respirare, che é una cosa che io spesso mi dimentico di fare, durante la giornata. Mi dimentico che lo sto facendo. E così mi dimentico di un sacco di altre cose: mi dimentico di osservare le persone, di osservare le cose, di ascoltare i suoni, di immaginare. Fa paura, penso. Sentire così, sentire di più, non essere distratti, invasi dai mille pensieri devo stare qua, devo andare là, devo fare questo, devo fare quello. È Cesare Viel a dircelo. Siamo sempre tutti in cerchio. Sarebbe bello, dice, poter mettere un po in pausa quell’Io giudicante. Risatine complici di sottofondo, fosse facile! Provateci, continua lui. Provate a non sentirvi in dovere di fare nulla, nulla di performativo, nulla di stupefacente. Abbiamo in mano un foglio di carta bianco, una cosa piccola, normale, ma che, con questi occhi più grandi, in questa calma, sembra una cosa nuova, piena di possibilità. Ma noi non dobbiamo fare nulla di stupefacente. Ed è così che l’emozione riesce a sgusciare in mezzo alle anse perennemente presenti dell’ansia da prestazione. Così, io vedo le ombre delle mie dita su quel foglio bianco e mi dico che va bene così, mi incanto ad osservarle. Se avessi dovuto pensarmela non ci sarei mai arrivata. Così, i fogli bianchi che ci facevano paura, adesso ce ne fanno un po’ meno. Lasciarsi andare non é facile. Io di solito ci riesco solo tra i mobili di casa mia. E invece ora… Meg Ryan aveva paura di volare, la creatività é un po’ un volo. Verso qualcosa che non conosciamo, qualcosa di noi che non conosciamo. C’è sempre la vocina che si mette di mezzo: ehi, tu! Ma che cosa stai facendo? L’Allenamento dello Scrittore serve ad andare oltre. Ecco quello che é successo ieri sera, a Officina Letteraria, grazie a tutti gli artisti, maestri nel loro campo, presenti. È talmente successo che alla fine mi sono ritrovata, guidata dalle due performer Alessandra Elettra Badoino e Marina Giardina del gruppo Augenblick, a fare, insieme ad altri, una piccola azione teatrale su cui un altro gruppetto di noi ha scritto delle bellissime cose, tutte diverse, tutte con all’interno qualcosa di personale, di nuovo. Tutto il processo creativo era completo. Maggiori informazioni su L’Allenamento dello Scrittore!

Flemma di Antonio Paolacci a Officina

Domani, sabato 31 ottobre alle 18:00, verrà presentato presso la sede di Officina Letteraria “Flemma”, il nuovo romanzo di Antonio Paolacci (edizioni Morellini). L’incontro con l’autore sarà moderato da Emilia Marasco e arricchito dalle letture di Maurizio Patella e dal dj set di Maurizio Mongiovì. L’estrema provincia italiana e una città in mutazione, una rete di storie che si pedinano a distanza, tra una Bologna ogni giorno più ostile e l’apparente monotonia di un paesino del Cilento. Un attore squattrinato che recita monologhi satirici. Un’agente di polizia destinata a scontrarsi tragicamente con lui. Un piano balordo di rapina. Un tredicenne che scopre le possibilità della violenza. Genitori che s’interrogano sul destino dei loro figli. Un’aspirante fumettista che lotta con i propri fantasmi. Un ragazzo che soffoca nel formalismo di provincia fino a concedere alla propria rabbia di attecchire… Un romanzo scritto al presente, permeato di sonorità rock e pop, che procede per frammenti, immagini e suggestioni, per raccontare una storia di solitudini, irrequietezze e sguardi perplessi, in cui i bambini non sono innocenti, gli adulti sono privi di risposte, i trentenni si chiamano ancora “ragazzi” e tutti, in qualche modo, sembrano incapaci di gestire la loro stessa realtà.

Intervista a Michela Murgia: di Chirù e del suo Profilo Facebook

I fatti sono questi. Michela Murgia è una narratrice e, quindi, ama imbrogliare le carte: mischia il passato con il futuro, il digitale con l’analogico, il reale con la finzione. Mi è capitato di leggere i suoi articoli, parecchi post e un paio di romanzi. L’ho anche sentita parlare sul palco, alla Notte degli Scrittori. Quando l’ho fermata nel foyer della Sala Gustavo Modena, le ho detto le solite cose che si dicono in quelle occasioni: mio suocero era sardo, la fregola, gli stagni di Santa Giusta. Poi le ho detto che mi era proprio piaciuta quella cosa che la scrittura è necessaria come lo scatto del topo. Cioè, come l’ultimo balzo del topo, preso nell’angolo. Insomma, vedete: io m’incarto e invece lei la dice bene, questa cosa del topo braccato con la scopa. Prima ancora di scriverla, la pensa bene e, quindi, la racconta bene. In pratica, la narra. Perché, al netto delle etichette, Michela Murgia è proprio una narratrice. Di quelle da storie davanti al caminetto. O da sedia in un cortile assolato, se preferite. Ma non divaghiamo. I fatti sono questi: Michela Murgia è talmente narratrice, che i suoi personaggi le scappano dai libri. E, per la precisione, scappano su Facebook. Proprio così. Il suo prossimo romanzo, per Giulio Einaudi editore, uscirà martedì 10 novembre 2015, ma Chirù, il diciottenne che cede il proprio nome al libro, si è già aperto un Profilo Utente Facebook. E si è fatto un sacco di amici. Michela Murgia, dando la notizia dalla propria Pagina Ufficiale Facebook, ha citato Salinger. Qualcuno avrà pensato ai sei personaggi di Pirandello, altri a una mera attività di Social Media Marketing. Ma il dato resta: c’è il personaggio di un romanzo ancora inedito che sta raccontando qualcosa di sé. Qualcosa che, prima, nessuno poteva sapere. Qualcosa che, anche dopo aver letto il romanzo, nessuno potrebbe sapere. Qualcosa che sta al di fuori delle pagine del libro, perché sta dentro a una Pagina di Facebook. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. (Il Giovane Holden, J. D. Salinger, cap. III) Che io sappia, è la prima volta che accade in questa forma e con questi tempi e, anche se non lo fosse, mi è sembrata una cosa interessante, quantomeno curiosa. Immerso come sono nella mia “Bolla Social”, fatta di comunicazione, libri e LEGO, pensavo ci fossero un sacco di articoli in merito, un mare d’interviste all’autrice e all’editore. E invece no. Così ho stuzzicato il Bot di Einaudi via Twitter, lui ha risposto e lei, Michela Murgia, non solo ha accettato di essere intervistata, ma mi ha pure telefonato. Ed eccoci qui, con l’intervista: Fruttero e Lucentini attribuivano enorme importanza ai nomi dei loro personaggi tanto che hanno redatto un tomo che, successivamente, è diventato un long seller intitolato “Il libro dei nomi di battesimo”: ci racconti perché hai scelto il nome Chirù? I genitori sanno bene che i nomignoli dati ai figli sono spesso parole deformate, quelle che da bambini non riuscivamo a pronunciare bene. Chirù è un nome dato in quel modo e richiama la parola ghiro perché è un dormiglione. È semplice da ricordare e non significando niente non è traducibile. Non è irrilevante avere un titolo che può restare immutato nelle traduzioni estere. Questo esperimento del Profilo Utente Facebook di Chirù (ora trasformato in Pagina per rispettare le policy) è frutto di un pensiero strategico o di una notte insonne? Di un gesto istintivo che ho fatto a luglio scorso quando ho consegnato l’ultima stesura del libro. Ancora con tutti i personaggi in testa, ho faticato a staccarmi in particolare da questo ragazzo, che nel libro è un personaggio più narrato che narrante, e a cui sentivo di dovere qualcosa di più. Ho aperto il profilo e ho cominciato a postarci senza sapere bene dove andare a parare. Dai gruppi di Anobii alle bacheche di Pinterest: le discussioni social intorno ai libri si moltiplicano. Posso chiederti perché hai scelto proprio Facebook? Perché è il mezzo con cui ho maggiore dimestichezza, il più immediato e il più multimediale. Twitter in questo senso è un mezzo di vecchia concezione: frequentato da pochi e soprattutto da addetti ai lavori, è uno spazio prediletto dai mediatori e raggiunge un numero minore di lettori. FB invece in questo è insuperabile. Si parla molto di narrazioni crossmediali ed enhanced eBook: Chirù ci sta portando in questo territorio o sono fuori strada? Credo siano categorie che interessano più chi osserva per studio queste narrazioni che non chi le compie. Per me è naturale cercare di raccontare con tutte le forme di comunicazione possibili, anche intersecandole. Non credo sia vero che quello che sto facendo con Chirù non lo ha mai fatto nessuno, ma se fosse vero me ne meraviglierei moltissimo. Chirù posta, fotografa, interagisce (non a monosillabi). Di solito, risponde in meno di un’ora. Come riesci a gestire tutto? Divertendomi. Se mi annoiassi non riuscirei a seguirlo e credo che non seguirebbero lui sulla pagina. Riguardo alla Pagina di Chirù, hai parlato di “Gioco di Ruolo”: dimmi che da ragazza giocavi a Dungeon & Dragons e guadagni subito 5 D20 di nuovi fan. Molto peggio. Ho giocato per dieci anni in una community di GDR online di ambientazione medieval-fantasy. È stata una palestra, perché non c’erano gli avatar, ma solo la parola scritta: quello che c’era esisteva nella misura in cui si era in grado di descriverlo. Senza dubbio Chirù è debitore a quell’esperienza e a quella nostalgia, che ogni tanto ancora mi prende. Com’è fatto il cervello di una scrittrice che riesce, sia nei tempi dilatati di stesura di un romanzo, sia nella quotidianità di una Pagina Facebook, a indossare comodamente i panni di un ragazzo di diciotto anni? Chi ha detto che sono comodi quei panni? Chirù è un personaggio letterario

4.000 storie d’amore | La Biennale dei Giovani Artisti di Milano

Avreste mai desiderato leggere un libro che si adattasse ai vostri gusti del momento? Una storia con un finale leggero, se la cena vi fosse rimasta ancora sullo stomaco. O un incipit piccante, se non avete più voglia del solito “C’era una volta”. Bene, noi l’abbiamo fatto; e con noi intendo il Collettivo Caratterimobili. Ma andiamo per gradi. Tutto comincia alla lezione di Officina Letteraria di un lontano maggio, in cui ci viene segnalata l’iniziativa: è la Biennale dei Giovani Artisti, che ha una sezione Letteratura alla quale ci si poteva candidare come artisti della Liguria. Abbiamo detto perché no, partecipiamo. Sulla scia dell’entusiasmo formiamo un collettivo: lungimiranti, lo chiamiamo Caratterimobili (sì, metà va scritta in corsivo). Al via del progetto, il collettivo conta una decina di membri entusiasti di condividere le proprie opinioni su un gruppo di messaggistica istantanea. Lentamente l’incantesimo si spezza: l’incombente esame di maturità per alcuni, gli sbalzi umorali, la pubertà, l’Estate. Sono tutti sintomi tipici dell’under 35, età sotto la quale ogni membro del gruppo doveva stare. Per fortuna c’è chi si sente vecchio dentro, e i pochi matusa rimasti affrontano la partenza del progetto al tavolino di un locale, davanti a un piatto di lasagne al pesto e a una parmigiana. Al tavolo ci siamo io; Irene Buselli: “grammatica” da studi classici che vuole fare la matematica; Ester Armanino: architetto, scrittrice, maestra di Officina Letteraria — ma principalmente capogruppo del Collettivo Caratterimobili; Tilahun Bertocci, giovane grafico che ha conosciuto l’approssimativa struttura del progetto circa un’ora prima della consegna, e ha dovuto dargli una forma. Il concept di questa edizione era chiaro e semplice, No food’s land. Ovvero: no, cibo, di, terra; Goggle Translator ci dà suggerimenti random. Expo 2015, il pianeta Terra, ma soprattutto: quando si mangia? Siamo partiti dal metabolismo. Si è pensato a un libro da mangiare (magari stampato su carta da zucchero), poi in ordine sparso: calorie, chilocalorie, la differenza tra una caloria e una chilocaloria, libro-gioco, bestiari magici, lasagne alla parmigiana, consegna entro Luglio, estate. Qualcosa, in un modo o nell’altro, ne è uscito fuori. Il risultato è una piccola antologia di short-stories a forma di menù. Il titolo è Restoryant, e anche qui c’è il corsivo in mezzo al nome. Restoryant è un ristorante letterario, dove non si serve cibo, ma storie: che sono poi il cibo della nostra mente. Così il menù si articola nelle classiche portate: antipasti, primi, secondi, contorni, dessert, caffè o amari per concludere. Ogni portata può avere 4 diversi sapori, scelti in base ai gusti del commensale. E sono queste scelte che comporranno la storia in base alle ordinazioni prese dal cliente. Un antipasto piccante è certamente un rimedio contro gli stereotipi, ma può comunque condurre a un secondo insipido, se la suspence non è ben dosata. 4 gusti di storie, in un certo senso storie d’amore, che si intrecciano in 6 diverse portate, con la possibilità (tuttora inesplorata) di 4.096 combinazioni di intreccio. E così, il 19 Ottobre, Restoryant (ricordatevi il corsivo in mezzo) ha debuttato in Sala Dogana a Palazzo Ducale, insieme ad altre 3 opere degli artisti selezionati a rappresentare la Liguria: Nuvola Ravera, Leonard Sherifi, Stefano Tirasso. Se vi sbrigate, fate ancora in fretta a vederlo. Ci è venuto anche in mente di girare un video per presentare il progetto, perché 4.096 storie che collimassero dall’antipasto al caffè non ci sono bastate. Dopo l’inaugurazione in Sala Dogana, la sera del 20 Ottobre al Count Basie Jazz Club di Genova, riservata ai 100 artisti dall’Europa e dal Mediterraneo ospiti della Pre-Biennale di Genova. Qui si sono tenuti i reading di tutte le opere letterarie partecipanti alla Biennale dei Giovani Artisti. Due copie di Restoryant deliziosamente confezionate dalla case editrice dei sogni Pulcinoelefante, sono poi in viaggio verso Milano; e se non hanno trovato traffico in tangenziale, sono già appoggiate a un tavolino sopra una tovaglia rossa alla Fabbrica del Vapore. Le porte hanno aperto il 22 Ottobre, dove Mediterranea 17 Young Artists Biennale sarà visitabile fino al 22 novembre. Per il progetto Restoryant si ringrazia: Emilia Marasco e Officina Letteraria. Edizioni Pulcinoelefante di Osnago, Alberto Casiraghy e Roberto Bernasconi. Per il video: Sara Sorrentino, Renato Carpi, Alessandro Bellagamba SDAC Genova. Grazie a Sara Fedele, Martina Bavastro, Letizia Castellazzi per esserci “state”, anche solo con il cuore.  

Penne Rosa a Genova

Si apre domani alla Sala Consiliare del Municipio IV il festival Penne Rosa, con un dibattito sulla scrittura a cui parteciperanno Donatella Alfonso, Sara Boero e Sara Rattaro. Penne Rosa è il primo festival delle scrittrici genovesi, organizzato dalle librerie indipendenti di Genova. Una bellissima iniziativa tutta al femminile e “a chilometro zero” per promuovere la lettura sul territorio. Gli incontri, a cui parteciperanno anche le maestre di Officina Emilia Marasco, Ester Armanino, Barbara Fiorio, Rosalba Troiano e Gaia De Pascale, si concluderanno il 27 novembre. Di seguito il calendario completo degli eventi.  Una bellissima iniziativa tutta al femminile e “a chilometro zero” per promuovere la lettura sul territorio. Giovedì 15 ottobre, Sala consiliare Municipio IV Media Val Bisagno Dibattito: Scrivere a Genova Autrici: Donatella Alfonso, Sara Boero, Sara Rattaro Venerdì 16 ottobre, Libreria Libro Più, Pontedecimo Presentazione: Storia naturale di una famiglia Autrice: Ester Armanino Venerdì 16 ottobre, Libreria Sottosopra, Portoria Dibattito: Creare famiglie creative Autrice: Emilia Marasco Sabato 17 ottobre, Libreria Ali di carta, Struppa Presentazione: Adelante Autrice: Silvia Noli Mercoledì 21 ottobre, Libreria Marassi Libri Presentazione: Correre è una filosofia Autrice: Gaia De Pascale Giovedì 22 ottobre, Biblioteca Campanella, Prato Presentazione: Racconti colpevoli Autrice: Elisabetta Rossi Sabato 24 ottobre, Municipio IV Media Val Bisagno Presentazione: Cha-U-Kao Autrice: Rosalba Troiano Martedì 27 ottobre, Libreria Finisterre, Pré Presentazione: La melodia sibilante Autrice: Claudia Piano Giovedì 29 ottobre, Biblioteca Italo Calvino, Sori Presentazione: Il sogno di Pandora Autrice: Sara Boero Venerdì 30 ottobre, Libreria Mastro Libraio, Certosa Dibattito: Raccontare la Resistenza Autrice: Donatella Alfonso Sabato 31 ottobre, Libreria Libro Più, Pontedecimo Presentazione: Nessuno mai potrà + udire la mia voce Autrice: Deborah Riccelli Martedì 3 novembre, Biblioteca Lercari, San Fruttuoso Presentazione: La melodia sibilante Autrice: Claudia Piano Mercoledì 4 novembre, Libreria Finisterre, Pré Presentazione: Quella striscia di cielo sopra la testa Autrice: Lucia Tartaglia Giovedì 5 novembre, Libreria Mastro Libraio, Certosa Presentazione: Falene Erotiche Autrice: Ornella Pozzolo Venerdì 6 novembre, Libreria Marassi Libri Presentazione: Tears in Hell da Crimini sotto il sole Autrice: Arianna Destito Sabato 7 novembre, Libreria Ali di carta, Struppa Presentazione: L’acero delle stelle Autrice: Marina Salucci Mercoledì 11 novembre, Libreria Libro più, Pontedecimo Presentazione: Adelante Autrice: Silvia Noli Sabato 14 novembre, Libreria Mastro Libraio, Certosa Presentazione: Quella striscia di cielo sopra la testa Autrice: Lucia Tartaglia Martedì 17 novembre, Libreria Sottosopra, Portoria Presentazione: Il sogno di Pandora Autrice: Sara Boero Giovedì 19 novembre, Libreria Marassi Libri Presentazione: Vintage! Caccia al tesoro nel cassetto della nonna. Autrice: Cristiana Crisafi Giovedì 19 novembre, Biblioteca Italo Calvino, Sori Presentazione: Qualcosa di vero Autrice: Barbara Fiorio Sabato 21 novembre, Libreria Ali di carta, Struppa Presentazione: Niente è come te Autrice: Sara Rattaro Lunedì 23 novembre, Libreria Marassi Libri Incontro con Barbara Fiorio Martedì 24 novembre, Libreria Finisterre, Pré Presentazione: Storia naturale di una famiglia Autrice: Ester Armanino Giovedì 26 novembre, Laboratorio Migrazioni, Sarzano Sant’Agostino Dibattito: Il mestiere di scrivere al femminile Autrici: Barbara Fiorio, Deborah Ricelli, Marina Salucci Venerdì 27 novembre, nella cornice del Foyer del Teatro della Corte Tullio Solenghi presenterà Barbara Fiorio e il suo Qualcosa di vero