NARRAZIONI tra fotografia e scrittura

Valeria Dimaggio, Stefano Isidoro Radoani, Annalisa Pisoni raccontano ognuno con la propria poetica un’esperienza molto privata, attraverso momenti simbolici che rivelano la vita interiore del soggetto. Sono narrazioni di temi che spesso oscillano fra l’elusione e l’esibizione: il cambio d’identità sessuale e la malattia, qui sono affrontati senza ricerca di fascinazione, e con interpretazioni molto personali. Valeria Dimaggio con Io sono Roberto ci conduce con grazia verso la rinascita di Roberto, libero dalla gabbia di un corpo in cui non si riconosceva e che ora mostra con disinvoltura e ironia. Stefano Isidoro Radoani con Exit, parla di sé autoritraendosi e ci mostra la possibilità di poter convivere col dolore fisico, con la paura di non poter più controllare il proprio corpo, trovando una via d’uscita. Annalisa Pisoni con il video, dal linguaggio più onirico, Anatomia di un battito rappresenta come ricordi e pensieri, anche in un fisico esanime, abbiano la forza di modellare le cose della realtà, anche oltre i limiti della vita individuale. In queste narrazioni il corpo è al centro di paure e tabù di noi contemporanei, oggi più che mai alla ricerca dell’eterna giovinezza e di una salute e di una forma perfette, e così davanti a queste immagini è probabile uno smarrimento iniziale destinato a mutarsi in una sottile sensazione benefica, che deriva forse dall’empatia con i soggetti, con la loro intensità che ci fa diventare non più solo spettatori ma anche partecipi della loro storia. Piera Cavalieri  

Made in Korea

Officina Letteraria comincia una nuova collaborazione con Studio 23 di Piera Cavalieri. Il progetto si intitola NARRAZIONI tra fotografia e scrittura, infatti le mostre che da fine febbraio saranno allestite nello spazio di Officina offriranno uno sguardo sulla ricerca di quei fotografi che attraverso le loro fotografie compongono il racconto di spazi, situazioni, persone. Le mostre a Officina non sono una novità, sono proposte per aprire Officina anche a un pubblico non necessariamente legato alla scrittura e agli apprendisti scrittori come ulteriore spunto per la loro immaginazione.   Piera Cavalieri scrive: Il pluripremiato Made in Korea è l’acuto sguardo di Filippo Venturi sulla Corea del Sud oggi. Con un procedere da antropologo, l’autore ha indagato gli effetti distruttivi e inquietanti dello sviluppo economico e tecnologico nella società sudcoreana attuale, in un lungo viaggio da Seoul a Busan. Dopo anni di grande sofferenza, in un tempo recente, la forte ripresa economica ha ribaltato il modo di vivere dei coreani. Il nuovo benessere, come analizzato da Venturi, ha portato con sé una forte competizione, le cui vittime sono gli stessi coreani. La Corea diventata uno dei paesi più avanzati, con multinazionali come Samsung, Hyundai, LG, sottopone i suoi abitanti a ritmi di vita folli. Non è concessa la lentezza.  La ricerca dell’eccellenza scolastica con ritmi di studio serrati, l’adesione ad ogni costo a convenzionali modelli occidentali di bellezza, anche con la chirurgia estetica, la competizione professionale hanno, come risvolto della medaglia, la dipendenza da internet, dalle tecnologie, dall’alcol e un elevato tasso di suicidi, soprattutto tra i più giovani. Venturi con il suo occhio attento e sensibile, ci restituisce, attraverso le sue immagini vivide, il resoconto realistico di un paese in balia della sua rincorsa alla modernità. Ma Venturi non è nuovo a questo tipo di ricerca sulle società contemporanee. “L’ira funesta” è un’altra, eccellente indagine, questa volta in Italia, su un luogo costruito appositamente, la camera della rabbia, per sfogare gli istinti più bellicosi e gli impulsi violenti a colpi di mazza. Il corpo, che sembra essere il veicolo di liberazione, diventa una possibilità narrativa non verbale.

Al Pozzo, foto di Stefania Boiano

Dal cuore dell’Africa

Sulla mostra fotografica di Stefania Boiano. Il Camerun. Il Camerun è un’isola tranquilla paragonata alle violente regioni vicine. Questa relativa sicurezza porta decine di migliaia di persone in fuga dai conflitti del Congo, del Ciad, della Repubblica Centrafricana e della Nigeria a trovare rifugio in Camerun.  Anche se all’apparenza terra stabile e sicura, in Camerun il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, rendendo così molto difficile l’aiuto ai rifugiati che cercano di ricostruire le loro vite nella nuova terra. Va anche ricordato che a livello mondiale l’Africa subsahariana è tra le zone più colpite dall’HIV e dall’AIDS con una popolazione infetta che tocca punte superiori al 60%. In particolare in Camerun “la maladie” (come viene chiamato l’AIDS, la “malattia” per antonomasia) riguarda oltre 600.000 persone e ne falcia ogni anno circa 40.000, tra cui molti bambini. Cosa fa CamToMe Onlus. CamToMe Onlus è una piccola ONG di Milano specializzata nell’aiuto ai “più poveri dei poveri”, come senzatetto, carcerati e malati di AIDS, in Camerun, Cambogia e Perù. CamToMe opera in Camerun da circa dieci anni e in particolare dal 2006 è presente a Djamboutou, nella periferia di Garoua, una delle principali città del Nord Camerun, con la forza, determinazione, coraggio e passione di Gabriella Lorenzi,  responsabile di una serie di progetti come: Lotta all’AIDS, Promozione Donna, Dignità&Solidarietà, Senzatetto. Il viaggio. Nel gennaio 2013 un gruppo di medici e infermieri dell’Ospedale San Paolo di Milano partono per organizzare un seminario sull’Aids per gli infermieri di Garoua, in Nord Camerun. A quel gruppo si aggiungono Stefania Boiano e Giuliano Gaia per fotografare e filmare le attività di CamToMe. Quel viaggio di reportage si è subito rivelato un’esperienza umana profonda, di quelle che lasciano una traccia indelebile negli occhi e nello stomaco. Le attività quotidiane di Gabriella e del suo staff camerunese, sono state la porta verso la conoscenza di un mondo duro, crudo, fatto di lotta quotidiana per la vita, per l’essenziale, per le cose più semplici che non possono essere date per scontato: un bicchiere d’acqua, un po’ di latte per un bambino, un’aspirina per una febbre troppo alta… Camminando tra quelle storie, volti, sguardi, cattivi odori e polvere, una cosa è stata subito evidente; nonostante la povertà e la dura lotta per la vita, c’è dignità e fierezza in quegli sguardi, una luce che eleva le loro anime. Tornati in Italia, durante l’editing dei video per CamToMe, è emerso che quei volti avevano una forza tale da poter essere una mostra fotografica, che avrebbe raccontato le attività di CamToMe almeno quanto i video, mostrando i veri protagonisti dei loro progetti: madri educatrici nei villaggi, bambini salvati dall’Aids, uomini dalla ritrovata dignità. La poesia antica dei loro sguardi e dei loro gesti racconta la fierezza di chi pur avendo alle spalle storie drammatiche, non se ne è lasciato piegare: in loro la vita è stata più forte di tutto, e per questo hanno molto da insegnarci. Chi è Stefania Boiano. Stefania Boiano è visual designer, pittrice e fotografa. Grazie alla magica invenzione di Internet riesce ad essere contemporaneamente a Londra dove dirige lo studio di comunicazione digitale InvisibleStudio, ed è assistente di illustrazione al Central Saint Martins, e Milano, dove ha fondato e segue uno spazio dedicato ai giovani artisti, Art in the City, e ha creato dal 2007 Leonardoamilano.com, un progetto di visite guidate ed eventi legati a Leonardo da Vinci. Quando non è impegnata nel teletrasporto tra Milano e Londra, Stefania tenta di cogliere l’essenza della realtà che la circonda con l’acquerello, l’olio o una macchina fotografica. Per contribuire al progetto. Se si vuole contribuire ai progetti di CamToMe, tutte le foto in mostra sono in vendita al prezzo di 40 euro l’una con passpartout. Il ricavato, tolte le spese, andrà interamente al progetto “Lotta all’AIDS” di CamToMe onlus in Nord Camerun.

Un'opera di Guido Zanoletti

Macchine da sogni

Macchine da sogni Di Giulia Cocchella. Immaginate un foglio bianco, poco più grande di una cartolina. Immaginate di disegnare sulla sua superficie una serie di solidi geometrici, ciascuno con le superfici sue proprie, tanto che non è più possibile, a un certo punto, distinguere se ciò che state immaginando è a due o tre dimensioni. Ora fate un piccolo taglio e aprite una porta nel foglio (sì, una porta). La porta si spalanca su uno spazio che prima non potevate vedere, che prima non c’era. E ha inizio la storia. “La porta si spalanca su uno spazio che prima non potevate vedere, che prima non c’era. E ha inizio la storia.” Nascono così i Teatri di Guido Zanoletti, come un’evoluzione, un ampliamento delle sue opere geometriche. Guido, oltre alla carta, utilizza la fotografia, rielaborata, il legno in tavolette sottili per costruire lo spazio scenico e in fogli sottilissimi per sostenere gli astanti. Il risultato sono dei microcosmi, ciascuno con una storia fatta di ricordi di viaggio, momenti tra amici, scene di film, scatti rubati su un treno o all’inaugurazione di una mostra, accostati tra loro, racconta l’artista, quasi senza pensare. Eppure da questa assenza di intenzione iniziale nasce un senso, uno e centomila, uno per ogni persona che guarda e si lascia cadere in questi mondi, pervasi di inquietudine ma anche di ironia. I Teatri (ciascuna tavola chiusa in una busta di plastica) sono quasi come i mattoni in casa Zanoletti, la occupano, la strutturano, tanto che a portarne via qualcuno per metterlo in mostra hai paura di toccare la chiave di volta. Sono impilati l’uno sull’altro a formare colonne, a occupare tavoli, a seguire il profilo dei muri: pagine tridimensionali di diario, ma un diario collettivo, universale, mai soltanto personale. Un diario che scrive ogni giorno, mi racconta la moglie dell’artista, o meglio ogni sera, quando a fine giornata Guido si mette al tavolo a lavorare al suo Teatro quotidiano. Mentre le guardo, e le guardo ancora, penso che queste opere funzionano come macchine di sogni, perché generano storie utilizzando simboli, associazioni inconsce, perché come nei sogni tutto è possibile, persino sedersi al bar con noi stessi. “Queste opere funzionano come macchine di sogni, perché generano storie utilizzando simboli, associazioni inconsce” Ci sono anche dei personaggi ricorrenti, li riconosco da una tavola all’altra: chi sono? Come mai a loro è lecito spostarsi tra i teatri? A volte sono solo ombre identiche, che abitano spazi diversi. Uscita dall’ultimo Teatro, risalita in superficie dal punto di fuga sino al primo piano, chiudo la porta di carta alle mie spalle. Scompaiono tutti gli astanti (li sento ancora parlare là dietro, ma non li vedo più). Rimane davanti a me un foglio la cui superficie è perturbata dal disegno di un cubo che sembra venir fuori. Poi nemmeno più quello: resta il foglio bianco, poco più grande di una cartolina. — Leggi anche “Di cosa siamo fatti”, l’articolo di Emilia Marasco sulla poetica di Guido Zanoletti. Vai all’evento sull’inaugurazione della mostra dedicata all’opera di Zanoletti.

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La messa a fuoco di un’idea

Su Fotografie, Fotopagine e Fotocose. Un post di Giulia Cocchella. Voglio fotografare le nuvole, disse Alfred Stieglitz quasi cent’anni fa. Prese in mano la sua Graflex, si mise in posa (lui, il cielo no, si mettesse un po’ come voleva, il cielo) e da quel momento io credo che la storia della fotografia abbia preso una piega diversa. I suoi Equivalents li pubblicò in serie, accostandoli ad altre fotografie che ritraevano particolari del mondo naturale: li espose insieme a formare un discorso per immagini che fosse, appunto, equivalente al suo sentire. li espose insieme a formare un discorso per immagini Penso a questi orizzonti, a questi intenti così lontani nel tempo, quando guardo le fotografie di Patrizia Traverso. È chiaro che si potrebbe fare un lungo elenco di differenze, ma mi pare di ritrovare lo stesso desiderio di narrazione per accostamento, nonché l’intenzione di usare la fotografia non solo come documento, ma soprattutto come mezzo per ritrovare lo stupore di fronte al già visto, si tratti di un cielo di nuvole o di una palma in mezzo al deserto. “Più che fotografa pura, mi reputo assemblatrice”, dice di sé Patrizia Traverso. Le sue Fotopagine sono in effetti accostamenti di fotografie e testi letterari, poetici, filosofici: le foto, piegate come le pagine di un libro aperto, sono montate su telai di acciaio che fanno da supporto anche alle parole scritte. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: lo scatto è pur sempre l’istantanea di un momento che resta immobile. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: Anche la serie Fotocose ha origine da un’idea combinatoria: oggetti e fotografia. L’oggetto evoca il ricordo e lo rafforza, gli conferisce una terza dimensione, mentre per noi che guardiamo, che non conosciamo bene la storia, genera incidenti fantastici, narrazioni supplementari. È bello lasciarsi guidare e poi perdersi in questi percorsi del ricordo e del sogno. Fotografa di parole, l’hanno definita, ma anche dell’ineffabile, del vento, di ciò che non si mette in posa. Fotografa di suggestioni dai versi di Giorgio Caproni, cui ha dedicato, insieme a Luigi Surdich, “Genova ch’è tutto dire”: un sensibile lavoro fotografico, a metà strada tra l’illustrazione nel suo significato più ampio e la poesia per immagini. Siate curiosi: andate a vedere. L’invito implicito è trovare collegamenti: fili sottili tesi tra le immagini e le parole, tra gli oggetti e le immagini, che legano ciò che vediamo a ciò che sappiamo di noi, utilizzando un processo che a pensarci bene è quello tipico della memoria. “Lo scatto è l’attimo che hai colto e che memorizza l’istante”, dice Patrizia della fotografia, “la messa a fuoco precisa di un’idea”, gli fa eco Stieglitz da lontano.