Tra le persiane – Apricale 2017

Tra le persiane di Cristina Biglia   Jean apre gli occhi nel buio della stanza, un rumore leggero ha attirato la sua attenzione. Il cuore ha un’accelerazione involontaria, i sensi all’erta. Le lunghe notti trascorse abbracciato al fucile con la guancia a riposare sulle pareti fangose della trincea di Somme l’hanno addestrato a percepire anche il più piccolo spostamento all’interno del suo spazio. Una striscia di luce come una lama affilata trapassa le imposte chiuse e gli colpisce la retina, provocandogli un moto di nausea alla bocca dello stomaco. Rivede ancora le esplosioni dietro le palpebre, le schegge incandescenti degli shrapnel come fuochi d’artificio alla festa del paese. Riapre gli occhi, in sottofondo sente l’acciottolio rassicurante della madre che rassetta in cucina, ma c’è qualcos’altro, un rumore nuovo, impercettibile, qualcuno che si muove nella sua stanza. Nessuno deve entrare. Gli amici non sono ammessi, neppure Maria, che passa spesso sotto le sue imposte chiuse, anche se la madre glielo avrà già detto cento volte “Maria trovati un altro giovane, non si può mettere su famiglia con uno così”. Jean non ha rimpianti, ha già deciso tutto, a Maria non ci pensa più. Gli dispiace per lei, se lo vedesse, la smetterebbe di passare lì sotto e di chiamarlo. La sua vita futura gli è molto chiara, non ci saranno sorprese come per gli altri suoi amici, prova quasi pena per loro. Lui sa già che vivrà e morirà in quella stanza. Al buio. Ha scoperto che ci sono dei sotterranei nell’anima, dei sensi vivi in quel che resta del suo corpo. E lì che inizia il suo viaggio, l’esplorazione, è lì che vivrà. La vita come la conosceva prima può rimanere fuori, per lui non esiste più. Ancora quel rumore, simile a un fruscio di vesti, a un frullo, è lì vicino a lui. Si mette seduto puntandosi sui gomiti, si abitua alla penombra della stanza. Il rumore viene dalla finestra. La luce che filtra fra le gelosie verde scuro della persiana si diffonde intorno e lo abbaglia, come un dio prepotente che voglia entrare di forza nella sua stanza. Qualcosa si muove al margine inferiore della persiana chiusa, nella striscia di luce che la separa dal davanzale. Spostandosi nel letto con le braccia, Jean si avvicina: ora le vede, sono le zampette delle rondini, che passeggiano avanti e indietro come sentinelle sul marmo della finestra. In qualche modo, in quel mondo impazzito di guerra là fuori, deve essere tornata la bella stagione. Jean batte le mani, lancia un urlo, vuole cacciarle. Ma le rondini lo ignorano, continuano a disegnare arabeschi di ombra e di luce col loro passeggiare impertinente. Ogni tanto una di loro si stacca dal davanzale, Jean la immagina volare nella vallata, la sente garrire. Dopo il volo tornano sempre alla sua finestra, attratte da qualcosa di misterioso. Non se ne vogliono andare. Gli occhi di Jean si riempiono di lacrime, è come se la vita stessa premesse contro la finestra, e lui con la sola forza delle sue braccia non può più spingerla indietro. Per la prima volta dal suo risveglio in ospedale, scoppia in un pianto disperato, rotto, senza freni. Vede con impietosa chiarezza lo scempio del suo corpo, il lenzuolo vuoto dove un tempo c’erano le sue gambe, il viso da fantasma riflesso nello specchio dell’armadio. Un bussare discreto, sua madre entra con la colazione. Rimane ferma sulla soglia, guardando il viso del figlio bagnato di lacrime. “Vai a chiamare Maria” le dice Jean in un soffio.

Ma cosa sono ‘sti nidi di ragno? – Apricale 2017

Ma cosa sono ‘sti nidi di ragno? di Marco Cassini Giovedì 27 luglio 2017 ore 11. Siamo nella saletta della Biblioteca di Apricale per l’inizio del Laboratorio Estivo di Officina Letteraria “Cercatori di Storie”. Vengono fatte le presentazioni: Alessandra, Angela, Cristina, Clara, Lena ed io (finalmente libero dagli impegni lavorativi che mi avevano impedito di partecipare alle prime quattro precedenti edizioni), la nostra vita in poche parole per conoscerci meglio e legare. Il depliant recita “Da uno spazio, una persona, un oggetto, a un incipit. Cinque scatti per una storia. Una macchina fotografica, è sufficiente quella del cellulare, e un giro per il paese. Ecco i Cercatori di storie. Impressioni visive, intuizioni, emozioni. Quando si entra in uno spazio occorre decifrarlo, Si ‘scatta’ e poi si selezionano le immagini per una storia. All’interno del suggestivo Castello di Apricale, Ester Armanino, scrittrice/architetto, ed Emilia Marasco, scrittrice/docente di Storia dell’arte,, vi racconteranno spazi e figure, vi offriranno informazioni, suggestioni e metodi per scrivere un incipit fulminante per una storia intorno a cinque scatti fotografici, Le storie saranno pubblicate sul sito di Officina Letteraria www.officinaletteraria.com”. Emilia sottolinea che si tratta di un laboratorio, un concept, la meta è possibile ma non sicura. Dovremo cercare, guardare, vedere, osservare, imprimere, saper afferrare un’idea nello spazio fisico e mentale di un borgo, medievale ma vivo. Individuare e cogliere “i segni più deboli del luogo”: un indumento, un’ombra, un tatuaggio, un chiodo arrugginito in un muro, possono diventare protagonisti (la parola muro mi fa balenare l’idea/ricordo dei nidi di ragno). Si prosegue citando Picasso “io non cerco trovo!” Ester ricorda l’approccio che hanno i bambini, curiosità, emozioni, impressioni che andranno finalizzate ad individuare una didascalia, un titolo. Ci viene consegnato il racconto Avventura di un fotografo di Italo Calvino ( immancabile ma per me che combinazione!), sul bancone viene posto Tentativo di esaurire un luogo parigino di Geoges Perec e se ne discute. La situazione mi piace ma forse si parla troppo e ci si distrae. Ore 12,30, ci viene assegnato un breve “compito in classe”: Descrivi il paradiso. “L’aria è frescolina e anche le persone un po’ gelide. Sorridono tutti, Sembra non manchi niente, È soprattutto la musica che ti fa sentir bene. Celestiale. E le luci. Le luci sono allegre. La musica aumenta. L’atmosfera si scalda. Mi faccio coraggio: «Permette signorina?» «Non so ballare!» «Neanch’io!». Cominciò tutto così alla balera “Il Paradiso”. Questo è stato il mio “svolgimento, gli altri tutti più in tema con descrizioni piacevoli, prevalentemente bucoliche, forse per me il Paradiso è troppo lontano, o troppo vicino. Alle 13 pranzo al ristorante A Ciassa : verdure ripiene (mitici i fiori di zucca), insalata mista, minerale e caffè, 10 euro. Breve pausa. Alle 15 si ritorna in biblioteca, conduce Ester che chiede: «Quanto conta per voi il paesaggio?». Ambientazione, spazio, location. Il luogo modifica la storia, deve essere percepito. Bisogna sentirlo, trovarcisi. Geografia, toponomastica, mappe. Il paesaggio è un personaggio. Va osservato, descritto, ascoltato. Bisogna starci dentro con curiosità, esplorare. Lo scrittore sta dove vive e dove costruisce il suo romanzo. Quando scrive deve essere presente. Qui e ora. Con tutti i cinque sensi. I luoghi devono essere visibili  e concreti. I dettagli poi fanno la differenza, le parole stesse sono dettagli. Non utilizzare le frasi fatte, i luoghi comuni stonano sempre. Arriva Emilia con uno strano volume 462 idee per scrivere, si tratta di una raccolta di esercizi richiesti dai curatori del testo a scuole di scrittura e scrittori in America. Ci viene consegnato un elenco stilato da Georges Perec con 52 specie di spazi. Dopo una discussione – Emilia ed Ester sono professionali, affascinanti e assistenzievoli – ci viene assegnato un altro breve compito: raccontare un  luogo esplorato da bambini. La frase iniziale deve essere “Ho sei anni e sono in…”. “Ho sei anni e sono in chiesa, i miei genitori mi portano spesso qui e ho una certa confidenza con questo ambiente ma oggi ho scoperto una cosa strana, stropicciandomi gli occhi assonnati e lacrimosi sono stato sorpreso da una quantità di raggi luminosi. La semplice luce di una candela se la guardo con gli occhi umidi e come se esplodesse in mille strisce di luce e qui le fonti luminose sono molte, comprese le vetrate su cui batte il sole. Non capisco bene, sono esterrefatto, con i miei occhi e le mie lacrime ho modificato la realtà. Mi perdo nell’esplorazione di questi effetti sfavillanti, non mi rendo conto del tempo e del resto. Poi riapro bene gli occhi, nessuno si è accorto di nulla, torno a seguire la funzione, a respirare l’odore d’incenso, con un po’ di senso di peccato”. Vengono letti tutti i brevi testi, mi viene il dubbio che gli altri siano più avanti; la discussione è sempre interessante, Emilia e Ester sono prodighe di consigli e esortazioni, viene citata Anais Nin “Non si vedono le come sono, si vedono come siamo”. Ore 17: visitiamo il Castello di Apricale, riceviamo gli ultimi consigli, poi ognuno va per i fatti suoi in cerca di immagini su cui costruire una Short Story che costituirà il frutto del nostro laboratorio. Io mi dirigo verso la parte del paese esposta a nord-ovest chiamata Ubagu   che significa “a baccìo” cioè all’ombra. Il sole vi arriva solo nei mesi estivi, in inverno è fredda, umida e scivolosa. La gente la evita anche d’estate perché infestata di ortiche, muschio ed erbacce. Per noi bambini era la preferita e lì si svolgevano i nostri accampamenti con capanne e battaglie e dissodamenti, lontano dagli sguardi degli adulti. Lì c’è una viuzza chiusa, senza denominazione, disabitata che, partendo da Via Garibaldi poco sotto la Casa del Boia, si va a frangere sotto l’antica cinta muraria. L’avevamo chiamata Via RuMaSiSà in onore dei quattro bambini che si erano improvvisati esploratori: Rubertin, Marcu, Silvano e Sandro (in ordine crescente di età dai 6 ai 9 anni). Lì mi ritrovo a cercare, dopo 55 anni di assenza, un “segno debole del luogo” soggetto che non avevo mai pensato di

Monet è passato di qui? – Apricale 2017

Monet è passato di qui? di Alessandra Agostini Partenza, ci sono riuscita, finalmente ! Ci sono voluti due anni di lavoro ai fianchi, di organizzazione logistica occulta, marito convinto, spesa fatta, casa in ordine perfetto, il mio bisogno di controllo assoluto sulle cose soddisfatto. Nell’animo pero’ e’ tutto un casino, si, proprio un casino, non c’e’ termine piu’ adatto. Non so cosa mi aspetta ma sono come attirata da una calamita gigante. Arrivo. Caldo insopportabile, pochi pensieri coerenti, un’atmosfera d’altri tempi, case appese alla collina, vicoli che, in confronto, quelli di Genova sono autostrade, una fontana che, oltre a promettermi acqua fresca, mi incute un timore che non capisco; forse qualcosa dovuto alla sua storia antica, medioevale. E si, il medioevo, qui ad Apricale la fa da padrone e padrone assoluto e’ il castello. Sono sfinita, voglio vedere la mia stanza, il castello dopo. Solo a guardarlo da fuori mi attira, una specie di Circe, chissa quante persone nei secoli hanno avuto la mia stessa senzazione quasi ingestibile…Che poi a me, ad andare cosi’ indietro nei secoli non piace nemmeno. Entro, spedita dentro un cortile. Strano, non capisco se sono opere di artisti un po’ eccentrici o cose lasciate li’ a caso: una damigiana spogliata dalla sua parte di vimini, una scala di legno nodoso e vissuto, dei vasi anche belli nella loro quieta semplicita’, delle statue quasi avvolte tutte dalle erbacce, forse contente di passare inosservate. Dal cortile mi inoltro all’interno quasi senza accorgemene, fino ad un angolo del sottotetto, vedo un un signore con un barba bianca che, se non fosse luglio, potrei scambiarlo per babbo Natale, e penso anche che sono un po’ stordita dal dal viaggio e dalla calura per fare queste associazioni. Questo signore borbotta in francese, sono sicura, e’ l’unica lingua che ho studiato, e sta spostando con un certa energia quattro cavalletti vuoti e ha appoggiato su un lungo tavolo quattro tele coperte da un drappo. Pittore? Francese? Con la barba? Con un cappotto un po’ retro’ a luglio? Oddio … Cerco di tradurre quel suo parlare sottovoce perche’ non so bene se sono sul pianeta terra e vorrei capirlo. Lo sento, sta dicendo: “parbleu, tutto questo tempo a Bordighera, tre` belle, ma qui, un paradiso. Questo castello e’ unico!”. Scusi signor…Monet ? Forse? Ma cosa dico? Ma cosa sto dicendo ? Ma come, cosa ci fai lei qui? Perdoni la mia invadenza ma credo di avere qualche problema spazio temporale. “Guardi, non conosco i suoi problemi, io mi sento in pace con me stesso, mi hanno chiesto di esporre in questo luogo tres fantastique che non conoscevo ed ho solo l’imbarazzo della scelta per posizionare questi miei dipinti su questi quattro cavalletti.” “Lei cosa dice? Le piacciono queste marine? Dalla vostra riviera ci sono degli scorci impagabili! Se avessi tempo mi fermerei,la veduta dal castello e’ sans egal.” Me oui, me oui…mi ritrovo all’improvviso a parlare francese da sola in una stanza, peer fortuna vuota. Ho un forte mal di testa ma sto sorridendo: un pittore strafamoso, francese, mi rivolge la parola e chiede proprio a me un parere su quattro suoi capolavori! Un colpo di caldo, sicuro.

Le rane raccontano – Apricale 2017

Le rane raccontano Lena Mohler Avevamo cercato dappertutto. Nei carugi, nelle case e anche nel Castello della lucertola. La cosa strana, era che la rete fosse ancora intatta. Niente danni. Niente strappi da dove avesse potuto fuggire. Dopo un bel po’  di tempo arrivò una bella cartolina dall’estero. Il disegno delicato assomigliava alla contessa di Apricale. Però non c’era scritto niente. Anni dopo, seguì una seconda cartolina. Anche quella volta senza scrittura. Vedendo la foto si capì come fosse fuggita un tempo; attraverso il tombino. Non si era mai più lasciata vedere ad Apricale, la rana che diventò una contessa. Le rane però ne cantano ogni sera.   Una bambina ad Apricale Già da piccola mi sentivo una principessa, bella come la contessa di Apricale. Adoravo stare sotto una rete appogiata vicino alla piazza tra I carugi. Da lì, nascosta dal mondo, potevo studiare la vita del paese sensa essere vista da nessuno. Ogni tanto mi lasciavo risucchiare dalla vortice che c’era sotto di me. Non era un vortice vero, ma il disegno di un mosaico. Per me diventava realtà e di là immaginavo di viaggiare in tutto il mondo. Oggi sono cresciuta e faccio I viaggi, di cui ho sognato da bambina. Però non sono sicura se I viaggi di una volta, sognati sotto la rete, risucchiata dalla vortice, non fossero I più belli.

La via di casa – Apricale 2017

  La via di casa di Angela Tenca Mi hanno consigliato di allontanarmi per un po’ dalla città, di vivere in un posto senza scarichi di macchine, con aria pulita e salubre. Né al mare né in montagna. Di fare una vita senza stress e un po’ di moto tutti i giorni, con moderazione. Apricale mi è sembrata la soluzione ideale. Il mio passo rimbomba nella notte del caruggio. Sopra i suoi sassi la mia ombra è ben visibile. Io non sono un fantasma e nessun fantasma mi insegue o mi aspetta dietro l’angolo. Sono tranquilla, serena, mi godo le notti solitarie svegliandomi solo per ascoltare il ritmo del mio cuore. La mia grotta è fresca e asciutta, forse una volta è stata una stalla per qualche animale ora ci dormo io tra queste pietre antiche. Antiche quanto? Chi ha costruito la prima casa di Apricale e perché? Forse dovrei studiare un po’ di storia. E come si sono accatastate le une sulle altre senza crollare mai? Quale geniale architetto riuscirebbe oggi a progettare un siffatto labirinto? Non è una storia questa o forse è una piccola storia d’amore per un posto fino a poco tempo fa sconosciuto ma che ha il magico potere di farmi stare bene. Di non farmi sentire mancanze che altrove sento forti. Devo chinare la testa per entrare nella mia grotta. Pochi centimetri più alta e non potrei starci. Pietre a vista lungo i muri, volte a botte per soffitti. Forse non era una stalla ma una cantina. Il vino è buono da queste parti. La mia ombra nel caruggio, sui ciottoli, mi mostra la via di casa.   Oggi ho prolungato la mia passeggiata fino al cimitero. Ho voglia di piangere e mi sembra il luogo ideale per farlo. A quest’ora di pomeriggio di luglio sono sola. Non lo so neanche io perché ma sento che ho bisogno di lacrime. Piccole, tiepide, tranquille. Non lacrime di dolore né di felicità. Forse lacrime di tenerezza per le persone che non ci sono più, il loro ricordo mi commuove. I miei nonni, le mie zie, i miei animali anche. Lacrime di tenerezza per me. Si mi regalo qualche lacrima dolce perché me le merito. Perché nonostante tutto ci sono ancora, contenta di quello che sto facendo e del posto in cui mi trovo e mi meraviglio ogni giorno di essere viva. Anche questo mi commuove. Al mio cuore fa bene stare qui. La via di casa è conosciuta. Vado a letto nella mia grotta, prendo le medicine antirigetto e mi addormento.                            

La gonna della contessa – Apricale 2017

La gonna della contessa di Clara Crovetto “La conosci la storia del baldacchino di Apricale?” esclama all’improvviso Gatto Bardo a Gatto Rosso, davanti alla loro biblioteca. “No ma invero non me ne importa gran che” di rimando lui. ”Fai male bello mio, è la più bella, intrigante, sanguinolenta storia della nostra Apricale, fatta di spie, di morti più o meno precoci, di battaglie legali, ma soprattutto di amori. E se ti dicessi che la gran contessa Cristina aveva un gatto grosso e rosso come te, ti attizzerebbe?” “ Ma non raccontare frottole, ammettiamo tu l’abbia visto in una foto: allora erano in bianco e nero, tutt’al più color seppia, COME FAI A SAPERE CHE ERA ROSSO?” “ Così sembra abbia scritto alla sua nipote- di rimando l’altro- quando era alla corte dello zar, ma sei troppo polemico, mi fai passare la voglia di raccontare”. “E vabbè, attacca un Do, e vediamo se mi intrighi”   Gatto Bardo stupì l’amico, stupì assai: attaccò a sciorinare una lunga, lunghissima poesia, in rima baciata, come un vero cantore provenzale. “ La contessa Cristina era bella e un po’ pienotta, e perciò sopranominata la ‘Bassotta’.”. E così creò lì per lì, nella penombra della crosa  che porta al Castello, un grande poema. Gatto Rosso era allibito: con la bocca semi aperta, il linguino fuori, e le orecchie moderatamente abbassate, seguiva il racconto rapito Da allora la stanza d’albergo detta Della Contessa, è la più ambita, con i due gattoni che  si offrono per una foto ricordo sul lindo baldacchino bianco.   Nasce, inoltre, nel borgo, un’ incantevole compagnia teatrale itinerante che, ancor ora, su tutta la costa ponentina ligure offre spettacoli in versi, nello stile degli antichi trovatori provenzali, che narrano di gesta, amori, motti frizzi e lazzi di quella terra.    

Apricale 2017 – Cercatori di storie

Prefazione Apricale è un luogo del cuore per noi di Officina Letteraria, lo è da quel primo laboratorio quasi a fine estate nel 2012. Arrivare nella piazza di Apricale è come entrare nello spazio di una storia. Bisogna addentrarsi per i vicoli, salire e ancora salire, andare al vecchio frantoio, al castello della Lucertola, bisogna parlare con gli anziani e con i bambini, bisogna ascoltare quello che anche le pietre hanno da raccontare. Solo allora troveremo una storia. Per questo il laboratorio ha conservato nel tempo il titolo originario: Cercatori di storie. Chiudiamo l’anno pubblicando i brevi racconti di Apricale 2017 scritti da Alessandra, Angela, Clara, Cristina, Lena, Marco. Racconti nati da spunti e appunti visivi, racconti semplici e un po’ surreali, perché così si diventa quando si arriva ad Apricale. Marco, apricalese doc, si è assunto il ruolo di cronista del laboratorio e Lena, svedese che vive in Germania, ha partecipato anche come rappresentante della comunità di stranieri che frequentano il paese da tanto tempo. Lei ha imparato l’italiano per amore di Apricale. Leggi i racconti di Apricale!

Apricale 2016 – Epilogo

Epilogo del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Epilogo di Sara Boero Alla fine ce l’avevano davvero, delle belle storie, quei nove smemorati. Mi liscio la punta della coda senza perderli di vista: Il bambino, senza fretta, si allontana in bicicletta; La pittrice e i suoi decori, ricchi d’animo e colori; Cavaliere immaginato, torna donna trasformato; Canta il vecchio musicista col suo buon cuore d’artista; Il barone truffaldino torna a casa col bottino; L’oste onesto è un’eccezione per le regole d’amore; Si confronta l’eremita con la svolta di una vita; C’era il boia e il suo mistero, s’è scoperto molto vero; Si dilegua la contessa che non era più se stessa. E io posso salutarli. Posso finalmente riprendere la caccia alla mia lucertola, che nelle ultime notti m’è sfuggita. La vedo tra le pietre del suo castello, la inseguo sulla terrazza. Si nasconde dietro a un vaso cercando di mimetizzarsi tra la lavanda e il timo ma questa volta non mi scappa sotto ai baffi: la fermo tenendola saldamente con la zampa. Non per la coda, come l’ultima volta, no: faccio per affondare gli artigli nel suo corpicino delizioso. E lei parla, con voce felina. La lucertola magica oppure no? “Gatto, anche sulla tua storia il sole sta per tramontare. Sono due giorni che ti scappo per fare indagini sul tuo conto. La mosca curiosa oppure no di me mi ha già detto tutto. Vuoi cenare o vuoi scoprire chi sei? A te la scelta.” Leggi i racconti di Apricale dall’inizio!

La contessa e il bambino americano – Apricale 2016

Decimo e ultimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! La contessa decaduta e il bambino americano di Angela Gambardella … 5, 6, 7, 8 perbacco! I rintocchi mi dicono che sono in ritardo oggi. Che sbadata! Devo correre in cima alla terrazza a salutare Perinaldo. Chiudo gli occhi e mentre canticchio nella mente una marcetta nuziale, un piccione in atterraggio mi sfiora la sciarpa avvolta intorno al collo. Subito dopo mi arriva una pallonata. Al mio solito strillo di spavento risponde una risata dalla piazza. Mi affaccio e ti vedo sghignazzare con insolenza. “Moccioso, vieni a riprenderti la tua palla!” Ti materializzi subito al mio cospetto e ti guardo con una smorfia di disgusto: da quanti giorni non fai una doccia? E quella macchia attorno al labbro è un principio di pubertà precoce o tracce paleolitiche di gelato al cioccolato? I capelli sono biondi ma aggrovigliati come dreadlock. “Non ti avvicinare, carino”, ti dico facendo un passo indietro e un sorriso di circostanza. Tu mi guardi con aria di sfida e cominci a canzonarmi: “hai paura dei piccioni, cosí grande!” Riconosco un accento americano e ti domando da dove vieni. Miami: mi spieghi che la Florida è un’appendice a sud degli USA. Che saputello! Indignata ribatto: “Beh certo, so benissimo dov’é la Florida. Ma cosa ti ha portato qui? Dove sono i tuoi genitori?” Dici di non ricordare nulla ma non sembra essere un problema per te. Ti volti di scatto verso il campanile e noti la bicicletta parcheggiata sulla guglia. Mi chiedi di custodirti la palla perché adesso vuoi andare a prenderti la bicicletta. Ne hai bisogno per raggiungere il confine francese: 2 ruote sono meglio di 2 gambe. Io invece prima vorrei recuperare dei guanti in lattice e del CIF per pulirti il muso. È così che si lavano i bambini, vero? Istintivamente chiamo la servitú in cerca di aiuto ma non risponde nessuno. Cerco di stabilire una relazione con te mentre tenti di parare i colpi di spugna. Nella colluttazione mi chiami maestra, poi ti correggi, teacher. Non faccio caso a questi dettagli, l’importante è renderti annusabile. Continui a parlare della Francia e mi pare di intendere che vuoi andare lí per raggiungere la tua famiglia. Ma perché ti hanno lasciato solo? Nel frattempo sei più calmo e pulito. Parli poco, ma quello che dici è deformato dall’accento, che comunque sembra forzato. Mi domando se tu non lo faccia apposta. Pian piano inizi a fidarti di me, forse perché sotto sotto in qualcosa ci assomigliamo. Ti prometto che farò tirare la bici giù dal campanile. Sembri più sereno adesso, e inizi a lanciarmi la palla, ma questa volta per giocare. Io son goffa ma ci sto. Inizi a fare sfoggio della tua sapienza e mi citi a memoria la catena montuosa alpina da levante a ponente, non omettendo il numero di pagina in cui inizia il capitolo. Nonostante la perdita di memoria temporanea mi sovviene il ricordo di essere una donna distratta. Eppure mi appare bizzarro che in America si studino i giovanissimi frammenti lapidei che svettano in Europa. Man mano che parli tradisci sempre più un gioco furbo che hai deliberatamente deciso di applicare. Fai finire tutte le parole con la W… Una sorta di alfabeto farfallino rivisitato. Con quell’accento bugiardo continui a chiedermi quando potrai avere la bicicletta appesa al campanile. Che sia questo l’indizio rilevante? Ti lascio lì e provo a chiedere aiuto a qualcuno in paese. Mentre cammino per le strade un cartello che indica il vicolo Ristretto mi attira a sé. Lì trovo uno zainetto azzurro dov’è disegnato uno stemma che racchiude una grande N. Deve trattarsi di una stirpe nobiliare a me sconosciuta, quindi di scarso interesse. Accanto c’è una scritta infantile: FORZA NAPOLI Apro la borsa e trovo i seguenti oggetti:  un pupazzo dalle sembianze di Shrek vestito da calciatore con la maglia azzurra numero 10; un sacco a pelo logoro;  3 ovetti Kinder di cui 2 aperti e ricomposti ma senza la sorpresa dentro;  2 sorprese Kinder smembrate, evidente segno di scarso interesse del fortunato proprietario, oppure no;  una borraccia con un liquido giallastro, forse succo d’arancia allo 0,3%;  una cartina spiegazzata delle Alpi Marittime dove è stata tratteggiata a pennarello una pista ciclabile che parte dal Col di Tenda e arriva a Marsiglia passando per Apricale;  un portafogli contenente ben 250 euro. Mi accorgo che è annotato il numero di un cellulare. Lo compongo speranzosa e all’altro capo della cornetta mi risponde una signora dalla voce afflitta: non ci metto molto a scoprire che si tratta della tua mamma. Povera donna, è disperata: sei scappato di casa in bicicletta due giorni fa per compiere un’impresa ardimentosa. Volevi arrivare fino a Marsiglia per vedere la semifinale degli europei. E hai pure pensato bene di spacciarti per americano, riciclando le quattro parole in croce che hai imparato alla TV! Un piano a prova di bomba: ma stasera qualcosa mi dice che la partita te la perdi…   Leggi l’epilogo dei racconti di Apricale! Leggi i racconti di Apricale dall’inizio!

La contessa decaduta – Apricale 2016

Nono e penultimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il boia in attività e la contessa decaduta di Clara Negro Bastardo d’un gatto! Già, cosa diavolo potevo aspettarmi da un animale? A me, un boia, essere accoppiato a una contessa, dover trovare addirittura il suo passato. Che tu sia una contessa non ci piove. Ti guardo, stai sola in mezzo alla piazza, il naso all’insù, fin troppo all’insù. Come lo chiamano? Alla francese? No, all’insù come quelli che hanno la puzza al naso, narici strette per non sentire l’odore dell’umanità. La puzza della paura e del sangue. Che io amo invece. Ti muovi e cammini, la testa alta, lo sguardo che non sfiora mai terra. Guarda che così rischi grosso, bella mia, le pietre irregolari sono ingannevoli, non vorrei sbattessi il tuo bel nasino a terra. Ti seguo verso il Castello della Lucertola. Mentre sali sorridi, come il viaggiatore che, lontano da troppo tempo, torna a casa, e ritrova la sensazione di posti conosciuti. Tentenni sulla porta del castello, ti fermi a guardare per essere sicura che nessuno ti segua. La porta è sbarrata: oggi non è giorno di visita. Appoggi le mani bianche allo stipite scuro, mormori qualcosa poi ti afflosci, come se, quell’abito che porti con sussiego ed eleganza, si fosse improvvisamente svuotato di te. Ti afferro prima che tu cada sulle pietre calde di sole. Cosa credi bellezza che ti lasci andar giù così, a peso morto? Mi basta un braccio per sollevarti, un corpo troppo leggero, quasi fossi fatta di fumo e non di carne, ossa e sangue, cose di cui io son esperto. Mi siedo nell’umidità dell’ombra, in modo tu possa sentire l’aria fredda che sgorga dalla bocca della cantina, e ti trattengo tra le braccia. Sento che stai riprendendo coscienza, apri gli occhi e mi vedi: “Chi sei?” Non scappi, non ti agiti, non urli come mi aspettavo, mi guardi dritto negli occhi. “Chi sei?” ripeti. “Ecco, questo è il mio problema, proprio uguale al tuo. Io sono un boia, e tu una contessa, mi sembra di aver capito.” Sollevo la mano e l’avvicino al suo collo bianco. “E questa cos’è?” “Questa cosa?” “La cicatrice intendo.” Non finisco la frase che sei già in piedi. “Di cosa parli? Quale cicatrice? Sono i tuoi occhi di boia vecchio e pazzo a farti vedere cose che non esistono?” In quel momento la porta del castello si apre. È il custode che finisce il suo giro di ispezione e torna a casa. Lo spingi di lato e sgusci nell’androne buio. Ti seguo e il poveretto mi grida dietro:“Ma dove va? Oggi è chiuso.” Non mi fermo, entro e sbarro la porta con il ferro morto. Sono sicuro che qui dentro è successo qualcosa. I tuoi e i miei passi rimbombano nelle stanze, sulle mattonelle decorate, tra i mobili antichi, nella corsa rovesci qualche sedia, cadono oggetti che non posso fermarmi a raccogliere. Stanza dopo stanza, corridoio dopo corridoio, sembra persino tu sappia dove andare, come cercassi rifugio o fuggissi da qualcuno. “Fermati!” Grido. L’ultima camera si apre su un giardino pensile. “Dove sei caruccia? Che ti nascondi a fare? Mica avrai paura di me? Sono il boia, ma tu che hai da temere?” “E che ne sai? Magari potrei essere la prossima condannata alla forca, al ceppo.” “Ehi sei rimasta indietro bella mia! È finita l’epoca delle barbarie. Adesso civili come siamo usiamo i vapori di cianuro, le iniezioni letali. Niente più sangue, purtroppo.” “Va via boia o mi butto. Giuro mi butto di sotto.” Si avvicina alla balaustra. “Me ne vado, me ne vado. Tu però non fare sciocchezze!” Le tende a fiori svolazzano, gonfie di brezza della sera. Anche la luce si smorza, tenera e rosata illumina i ritratti alle pareti. Mi avvicino a un dipinto, una cornice dorata chiude un paesaggio marino attorno al corpo di una donna sottile, flessuosa, lo sguardo alto, buttato lontano sull’orizzonte e il naso…il naso all’insù. Troppo all’insù. Leggo il cartellino alla base del quadro: Cristina Belforte, contessa di Apricale,15 maggio 1840 – 8 settembre 1865. Cristina Belforte, sei tu allora, tu: la contessa di Apricale. Mi avvicino alla finestra, sei ancora là: il viso rivolto alla valle, le spalle curve di un peso senza memoria. Torno al dipinto, accanto c’è un tavolo e sopra al piano lucido libri antichi, documenti dai margini consumati e un quaderno. Lo apro: pagine ingiallite, fitte di una scrittura leggera e incerta. Leggo e la stanza si riempie di voci e di ombre, il passato diventa presente. Apricale, 12 marzo 1865 Il ventre si è gonfiato, ne spio la curva nel grande specchio della stanza. E faccio del mio meglio per schiacciare la protuberanza maligna con i palmi aperti. Che fare? Alfonso, mio marito, manca da otto mesi. Non posso fargli credere che sia frutto dei suoi lombi. E poi i soli ricordi che mi ha lasciato sono i segni della sua violenza. A lui, la colpa del mio tradimento. A lui e agli occhi e alle mani di Carlo. Alle sue parole di miele, al suo tocco leggero. Scorro veloce le righe: senti dentro di te quell’essere indesiderato e lo odi. Non sarai mai una madre.   Apricale, 12 luglio 1865 Tutti al castello lo sanno e tutto il paese ne parla. Li odio. Odio me e lui, e Carlo Ratti che è felice, invece. “Fuggiremo lontano!” Mi dice. Ma dove? Gli dico. Di che vivremo? “D’amore, mia adorata, d’amore e di baci.” Povero pazzo!   8 agosto 1865 È arrivata notizia: Alfonso tornerà prima di Natale. Per allora dovrebbe essere nato. Lo sento scalciare sempre più forte. Ho costretto Mariuccia a legarmi stretto il ventre con una fascia. Stringi, tira forte. Troppo tardi, non servirà a far scomparire la pancia, ha detto. Si avvicina

Il boia in attività – Apricale 2016

Ottavo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il frate alcolizzato e il boia in attività di Francesca Carlaccini Quest’uomo turba la mia quiete. Ha un sorriso titubante e ingenuo che stride con i suo i gesti netti e il modo in cui si tormenta le mani. Come se le sue mani ruvide e vecchie di duecento anni ancora ricordassero gesti realizzati con maestria e conclusi con raffinatezza. Tutti abbiamo una vocazione in un dato luogo e un dato tempo. La mia ad Apricale è questa: scoprire i segreti di quest’uomo che si fa chiamare Il Boia. L’ho già incontrato un po’ di volte: il luogo e l’ora sono sempre gli stessi. Sei del mattino, al tavolo che guarda verso Perinaldo. Il barista gli porta 2 litri di latte in una caraffa di vetro. Lui, religiosamente rivolto verso il panorama, beve bicchiere dopo bicchiere con una determinazione inquietante, fino a svuotare la caraffa. Risparmia solo le ultime gocce che fanno resistenza e che alla fine del rituale scivolano discretamente sulle pareti trasparenti. Sento di essere in una posizione privilegiata e di poter disturbare le sue abitudini solitarie. Mi siedo al tavolo con lui per osservare da vicino i suoi automatismi fedeli, che mi vengono consegnati con la stessa discrezione, goccia dopo goccia. E cosi goccia dopo goccia, ha confessato di sentire il bisogno del latte e dei paesaggi immobili e pacifici del mattino per contrastare gli incubi notturni. Le sue spalle formano un perfetto angolo retto con il collo e nascondono una tensione muscolare tale da farlo sembrare una macchina da guerra, capace di attutire i colpi di una vita lunghissima. Ma non mi basta, ho bisogno di più informazioni. Devo afferrare l’essenza nascosta di questo sguardo taciturno, le storie sotterrate e ripudiate dalla sua memoria, ma registrate sottobanco dai suoi tessuti muscolari. Perciò l’ho invitato a mangiare al ristorante credendo che un buon pasto e del buon vino gli avrebbero sciolto la lingua. Arriva in tavola lo stinco di maiale locale. Lo vedo frugare nella tasca dei pantaloni e recuperare un coltello. Incide un primo taglio nella carne morta servita nel suo piatto e poi mi porge il coltello perché lo osservi meglio. Il manico di legno sembra molto antico, la lama consumata. Me lo riprende e si rimette a sezionare il porco con chirurgica precisione. Comincia a parlare solo una volta terminata la prima bottiglia di vino, quando le mie gote sono ormai infuocate e io provo un misto tra terrore ed eccitazione. Prima di parlarmi lascia passare un interminabile silenzio. “Se sei veramente un uomo di chiesa, dovresti essere abbastanza colto per sapere cosa rappresentano le incisioni sul coltello.” “Non cercare di ingannarmi: intanto i boia non incidevano le tacche delle loro esecuzioni su un semplice coltellaccio, ma bensì sulla mannaia. E poi non scherziamo, cosa ci farebbe un boia nel 2016?” Il pasto ormai è terminato, nel poco tempo che rimane riesco solo ripetergli frasi fatte sulla bontà degli uomini a cui nemmeno io credo più. Pago il conto e comincio a vagare alla ricerca di un rifugio: mi sento come un bimbo terrorizzato dal buio. Cammino tra scaglie di calcare, ruscelli borbottanti, cortecce antiche, lucertole indolenti, formiche, libellule che tentano di persuadermi dell’equilibrio perfetto del ciclo universale. Ma tutta questa bellezza è illusoria di fronte alla crudeltà umana. Ho bisogno di immergermi in acqua gelida, ho bisogno di sentirmi immobile e in pace per contrastare i miei tormenti. Scendo al torrente, ai piedi di un sentiero che sembra porti lontano, dietro i monti e ancora oltre. Mi siedo su una rudimentale panchina, tentato dall’idea di scomparire dietro i monti come il sentiero. È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola… È quando si smarrisce la strada che la Provvidenza ci fa da bussola: noto un libro nascosto sotto la panchina. L’autore è una certa Giada Prestanza. Il titolo è Ultime scuse del boia. Comincio a sfogliarlo con ritmo convulso, ogni capitolo è illustrato da un ritratto fotografico in bianco e nero. Lo richiudo e faccio un lungo respiro. Sembra incredibile ma è proprio la storia che stavo cercando. Riapro il libro al prologo e comincio a leggere. È la vita di un ex partigiano e delle sue esecuzioni antifasciste. “Dedico questo libro a chi questo libro me lo ha raccontato: mio nonno Aldo Prestanza.” Scorro le pagine fitte di foto in bianco e nero, datate dal ‘43 al ‘45, alcune anonime, altre eccentriche, altre ancora malinconiche. Durante la Resistenza non tutti erano pronti a sporcarsi le mani, anche se in nome della giustizia. Se nei tempi antichi il boia serviva a far rispettare la legge, per i partigiani della zona il boia serviva a far rispettare la giustizia. Ma la giustizia era illegale. Aldo Prestanza era quindi il mio boia. La mano che aveva sgozzato i ragazzi delle foto era la stessa che aveva stretto la mia. Allora era giovane come loro. Portavano i fascisti su per i monti di Rocchetta Nervina dove già abitavano i fantasmi. Lassù avvenivano le esecuzioni. Per ogni testa, una tacca sul coltello. Richiudo il libro. Se la Provvidenza non ci aiuta a ritrovare la nostra storia, può venirci in soccorso per il bene di qualcun altro.

L’oste onesto e il frate alcolizzato – Apricale 2016

Settimo racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! L’oste onesto (oppure no) e il frate alcolizzato (oppure no) di Elena Genisio Percorro faticosamente la salita che porta alla parrocchia; è ripida e le pietre sono arse dal sole, così come la mia testa; provo un senso di vertigine. Arrivo ad appoggiarmi al portone e finalmente entro. Mi investe una folata d’aria fresca, che mi rigenera. Intravedo quel frate solitario osservare con sguardo vacuo, quasi assente, l’altare della chiesa di Apricale. Sembra fuori posto, guarda gli affreschi alle spalle dell’altare come se non li vedesse davvero. Poi abbassa lo sguardo verso i mosaici colorati del pavimento e intravedo in lui un guizzo di ammirazione. Si muove lentamente, trascinando il suo ruvido saio con passo greve, tocca spesso il cordone che gli stringe la vita, aggiustandolo in continuazione, come se non ne fosse mai soddisfatto. La sua statura supera quella di un uomo di media altezza e la sua magrezza lo fa apparire anche più alto. Percorrendo la navata centrale, incrocio il suo sguardo acuto e penetrante; il naso affilato e un po’ adunco gli conferisce un’espressione vigile, precisa. Possiede un mento pronunciato, segno di volontà salda… Possiede un mento pronunciato, segno di volontà salda; il viso è allungato e coperto di efelidi, che sbocciano da una barba grigia scolpita con cura. Ritengo possa avere cinquanta primavere, ma il suo corpo si muove agile. All’improvviso lo vedo cambiare direzione per dirigersi deciso verso l’altare, sale velocemente i gradini che lo separano dal tabernacolo e compie un gesto inaspettato. A fianco del tabernacolo, dove vengono custodite le ostie da consacrare, qualcuno deve aver dimenticato il vassoio d’argento su cui è appoggiata la bottiglia contenente il vino per la messa. Il frate solleva il tovagliolo di lino bianco appoggiato sulla bottiglia, ma si arresta per guardarsi rapidamente attorno, furtivo, per verificare se ci sia qualcuno in chiesa. Io, nel frattempo, mi ero già nascosto dietro una colonna marmorea, in modo da osservare la scena senza essere visto da lui. Il frate, certo d’essere solo, afferra la bottiglia e, avido, beve il vino fino all’ultima goccia. Questa scena mi lascia esterrefatto. Finito di bere, porta le mani al cordone in vita per aggiustarlo compulsivamente, un movimento che sembra rassicurarlo. Fatto questo, si dirige a lunghe falcate verso l’uscita della chiesa, con lo sguardo basso. Nel frattempo, sono uscito dal mio nascondiglio, lui, passandomi accanto, senza vedermi, mi investe con un odore peculiare, aspro, direi alcolico, a me familiare e mi accorgo che il suo colorito è pallido ma acceso solo sulle guance di un rossore innaturale. Ho la sensazione di conoscere questo frate sgualcito. Questo frate, sotto il suo vecchio saio sciupato dal tempo, sembra custodire e celare con fatica un segreto. Forse la ragione che lo ha guidato verso la bottiglia. Sempre più incuriosito e attratto da quest’uomo, decido di continuare a seguirlo con discrezione per scoprire cosa gli sia accaduto, quale sia il suo segreto. Lo vedo sparire in un vicolo stretto. Entrato a mia volta nel caruggio, non vedo più il frate. Evidentemente ha allungato il passo e ha inforcato uno dei sentieri che portano fuori dal paese. Non provo a seguirlo per strade più scoscese, mi volto per tornare in piazza. Nei pressi dell’antico forno, incontro una donna con lunghi capelli corvini, che tiene per mano un bambino che potrà avere una decina d’anni. Dalla tenerezza che c’è tra loro è evidente che si tratti di madre e figlio. La donna è bella, ma un po’ sfiorita, sembra stanca; il bimbo mi colpisce particolarmente, non le somiglia affatto, ha colori diversi, capelli rossi e una pioggia di efelidi sulle guance. Quei caratteri mi risultano familiari: riconosco in lui i tratti di quel frate misterioso, anzi sembra lui in miniatura. “Ma come mai? È possibile che tra loro esista un qualche vincolo di parentela?” La donna trasporta con fatica una borsa pesante, vedendola in difficoltà le offro il mio aiuto. Intanto ne approfitto per scrutare meglio il bambino. “Signora, mi permetta di aiutarla… posso fare le veci di suo marito e portarle la borsa fino a casa? È pesante e lei deve badare anche al suo bambino.” E lei: “La ringrazio molto, abitiamo qui vicino” e guardando il bambino “è Francesco l’uomo di casa, siamo soli io e lui”. Dopo una discesa di pochi passi, raggiungiamo una casa graziosa, con un piccolo giardino e con finestre fiorite di gerani. “Eccoci arrivati!” esclama Francesco. Deposta a terra la borsa, mi congedo dalla donna e mi allontano. Nel frattempo, appare il frate, assorto, di ritorno dal suo vagare. Mi fermo di nuovo a osservarlo. All’improvviso viene investito da una palla: è Francesco che gioca con la sua mamma nel giardino. Il frate raccoglie la palla, alza lo sguardo e vede la donna. Lo vedo trasalire, immediatamente porta le mani al cordone del saio e le sorride istintivamente. Lei lo saluta con dolcezza: “Bernardo! Sono dieci anni che aspetto” dice. Un vecchio, seduto su una panca di legno poco lontana, assiste alla scena e si rivolge a me come se mi conoscesse: “Hai visto? Ti ricordi quando dieci anni fa Frate Bernardo è stato allontanato da Apricale? Ha vissuto per anni come un eremita, non si sa dove…”. Io che non ricordo nulla, guardo il vecchio con sorpresa, senza parlare. Il vecchio prosegue: “Ma sì… non era mai stata data una motivazione ufficiale per la sua partenza forzata, un esilio durato dieci anni. Poi è arrivato quell’angelo dai riccioli rossi, cresciuto solo con la mamma.” Ecco svelato il mistero di quella somiglianza. Il frate si avvicina quasi timoroso alla donna e al bambino, aggiustandosi il cordone del saio più nervosamente del solito. Allora il bambino prende l’iniziativa e gli corre incontro. Frate Bernardo toglie finalmente le mani dal

Il barone rampante e l’oste onesto – Apricale 2016

Sesto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo! Il barone rampante (oppure no) e l’oste onesto (oppure no) di Licia Valente Mi sono appoggiato alla balaustra sul sagrato della chiesa. La gente è più bella vista dall’alto. Ricci arruffati, cocce pelate che brillano al sole, ventri gonfi sotto bazze di tordo. Ride il gatto, è disgustoso mentre ammicca e si prende confidenza, quasi fosse uno di noi. Chi siamo noi? Ero un barone, lo so per certo, ché non mi piace star appresso agli altri, né gli altri amano avvicinarsi a me. Chi sono gli altri? Cavalieri, mocciosi, chierici derelitti, musici e contesse decaduti hanno steso sulla piazza le loro vite senza più orme una vicina all’altra. Siamo fantasmi appesi al campanile, in balia del vento che non viene a portarci via. La porta del castello stride con le rondini, si apre su un giardino ombroso che guarda il borgo dall’alto, come me. Senza più una storia che segni il mio confine, provo a immaginarne altre, una per ogni testa. Qual è la tua, oste che ti dici onesto? Le tue spalle piccole si sono posate come un velo sulle pietre aguzze. Hai dormito il sonno dei giusti e ti sei svegliato che non eri più tu. Sarai davvero onesto? Dal fondo del mio nulla ormai perduto suona una nenia antica: L’oste onesto si muove lesto. Non è mai mesto l’oste onesto. Ha le mani fini e sottili, di chi sa dove vuole metterle le mani, e dove tenerle fuori. In sogno, dita simili, di donna, si infilano nel solco della memoria e della mia schiena. “Diritto, devi stare diritto”. La voce che risale da lontano, gira intorno a una tavola imbandita, non ha volto né nome. L’oste sorride a tutti, non separa mai le labbra. Non dice, lascia dire. Annuisce spesso, quasi annotasse un parere da prendere in prestito. Per lui, siamo solo passanti dentro una taverna senza nome o luogo, in una notte senza memoria, uno a fianco all’altro, lo sguardo fisso alla bicicletta appesa al campanile, che nessuno la può rubare. Seduto al lavatoio, l’oste fissa il vuoto e stringe le mani l’una dentro l’altra. Dove vuoi tornare, oste onesto? Un oste è onesto solo se non è un oste. Dalla mia balaustra, osservo la lapide su cui vorrei leggere chi sono stato. Una voce straniera fende l’aria alle mie spalle. Mi inchino d’istinto. “Bonjour mademoiselle l’artiste”, e son già pronto a balzare sul parapetto, di nuovo in alto, lontano. L’ amazzone del popolo che ho davanti non è certo demoiselle, ha mani ruvide con cui si carezza le guance cosparse di vene sottili. – Bonjour, mi dice. – Vous n’êtes donc pas l’artiste? – Eh bien non. Sono l’ostessa, per servirvi, Monsieur. – È incredibile c’è qui tra noi smemorati anche un oste, forse onesto, o almeno comme ça il dit. Forse lo conoscete? – Monsieur mio caro, mi dice allora lei, tout le monde le sait che un oste è onesto solo se non è un oste! Ride così argentina che mi scappa la voglia di saltar sul mio poggio. Ha fianchi larghi e seni poderosi che tiene a bada con le mani mentre ride. E’ desiderio quello che provo? Ho avuto un grande amore? Forse mai. – Ditemi però, Madame, lo avete mai conosciuto, voi, un oste onesto? – Oh moi? Bien sur, certo che sì. Questo sette di luglio non c’è la luna, che se l’è mangiata il gatto, dopo la lucertola. Lei è tornata sotto la mia balaustra. Da lì mi ha detto del suo amore perduto in una notte di nera magia. Oste, hai avuto più di una vita e più di un volto. Eri tu quel giovane delicato e buono, per davvero hai amato e per amore hai abbandonato altezze e distanze. Svelato è il tuo mistero, oste onesto: fosti Alberico, nobiluomo innamorato di una scalcinata forestiera senza passato o blasone. Nel borgo fu l’incontro, per lei lasciasti onore e lustro appesi al gran camino delle feste, nel castello ai piedi del monte. Al borgo passò la strega quella notte e quando tornasti a questo borgo appeso, le campane non si mossero a salutare il tuo ritorno d’eroe senza trofeo. Ti dissero allora che se n’era andata. La notte del 3 di Luglio, quella volta. la strega rubò a lei, straniera, la memoria e a te l’amore. Senza una parola, era fuggita a un passato che credeva per sempre perduto, mentre il gatto rideva, tenendo tra le unghie la vostra storia, come un topo che muore. Senza più nome né amore, cercasti un luogo straniero e ti facesti oste tu stesso, a eterna memoria del sogno fuggito. Sei davvero onesto, oste, perché oste davvero non sei. Per questo sei tornato qui, a cercarla una volta ancora. E sei rimasto tu, questa volta, prigioniero tra le fauci della strega e del gatto. Mi guarda sconsolato, quel nome davvero non è più il suo. “Non sono più io quell’uomo, io sono l’oste portami via al mio banco e al mio grembiule.” Lei spunta da dietro le mie spalle, – Sono io. Sono qui. La seguo scendere lenta, verso di lui. È una stella che scende dentro gli occhi spalancati di lui. Sono quattro ora le mani intrecciate e hanno la forza dell’edera, per non lasciarsi più. Il gatto ulula dal fondo del pozzo. – Finalmente ti ho trovata, le sussurra lui. – Sono io che ho ritrovato te.   Leggi gli altri racconti di Apricale 2016!

Il vecchio musicista – Apricale 2016

Quinto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del vecchio musicista e del barone rampante! Il vecchio musicista (oppure no) e il barone rampante (oppure no) di Paolo Silingardi «Barone, credo che il gatto sia stato oltremodo magnanimo nell’assegnarmi questo compito. Abbiate solo la compiacenza di sfilarvi il guanto in modo che possa osservare l’anello con il sigillo del casato e il mistero sarà subito risolto» «Ma certo! Nonostante l’età il suo cervello è davvero… ahi» la bocca si piega in una smorfia di dolore. «Diavolo, mi sono ferito. Mi era parso in effetti di avvertire un fastidio.» «E’ un taglio.» «Non ho la minima idea di come me lo possa essere procurato» «E il suo anello è sparito.» «Forse sono stato rapinato.» «È quello che intendo scoprire, signor barone. I miei ossequi.» Immerso nei miei pensieri ho abbandonato la cacofonia della piazza per trovare rifugio nella quiete dei vicoli ombrosi. Il gatto ha detto che l’incantesimo colpisce solo i forestieri. Senza dubbio il primo passo è dunque quello di domandare nelle locande. Mi metto quindi in cammino mentre riassumo nella mente le caratteristiche del barone. I vestiti paiono di eccellente fattura, il portamento è nobile, la voce è bassa e impostata. Solo quel barbone nero da brigante stona con il resto, ma vai a sapere come sono adesso le mode dei giovani. Assorto in questi pensieri mi ritrovo infine davanti a una locanda, l’insegna malandata che cigola alla brezza del mattino. Non pare posto adatto a un signore, ma da qualche parte si deve pur cominciare. E poi ho bisogno di andare in bagno e riposare qualche minuto. «Mi hanno detto che in questa locanda alloggia il barone di… di… Mi aiuti bella signorina ché alla mia età la memoria gioca brutti scherzi…» La fanciulla scoppia a ridere così forte che quasi rovescia il mio bianco amaro. Il suo petto sussulta meraviglioso come quello di certi soprani… «Un barone qui. Questa è bella davvero bella» i seni palpitano ancora mentre si curva sul tavolino. «Eppure dovrebbe alloggiare in una locanda come questa, se non erro.» «Voi forestieri in questi giorni… I nobili non alloggiano alla locanda, ma al castello, in cima alla rocca. » Ringrazio allungando una moneta. «Questa è per il vino, per l’informazione e per la grazia delle sue risate.» Mi scocca un bacio sulla tempia e si allontana ancheggiando tra le risa. Metto in tasca un sottobicchiere per ricordarmi della bella cameriera ed esco salutando con un sorriso sornione. Il bianco ghiacciato mi ha un po’ rinfrancato, ma tutte queste scale con gli alti scalini e le pedate irregolari che spezzano il ritmo… Mi tuffo nella garitta del guardiano come in un laghetto gelato. «Il signore è atteso?» «Ma certo! Io sono… Sono Giacomo Puccini!» «Un musicista. È il primo questa settimana» declama il servitore attraversando a passo troppo svelto, l’ampio salone silenzioso. «Tuttavia il barone è assente. Non so quando tornerà. Come ben saprà si tratta di un uomo piuttosto eccentrico» soggiunge quindi in tono confidenziale. Poi indica una sedia e si dilegua. Mi guardo intorno mentre recupero il fiato e le gambe rallentano il tremore. La grande sala colpisce per il silenzio del suo spazio. Un soffitto spiovente in legno, sorretto da robuste capriate, veglia muto sull’aria immobile. La campana rintocca una volta. Poi tace. Passeggio un poco per mantenere attiva la circolazione. Ho bisogno di andare in bagno e ne ho bisogno in fretta. Forse dietro questa porta… In un attimo mi ritrovo nel gabinetto particolare del barone. Alle pareti scaffali ingombri di libri. Al centro un pesante tavolo di quercia ricoperto di faldoni e strumenti musicali. Su un leggio, illuminato dalla luce polverosa, uno spartito scritto a meno: una ballata ingenua, ma orecchiabile. Sgattaiolo via furtivo e in pochi istanti ritrovo sotto i piedi i ciottoli sconnessi dei vicoli. Un cane orina contro un muro, innaffiando incurante un vaso di gerani. Beato lui, penso mentre cerco un angolino appartato per imitarlo. Trovo un anfratto e finalmente mi libero, beandomi del rintocco delle gocce nella piccola pozzanghera che si va formando accanto a quell’altra macchina scura che pare…sì, pare proprio… sangue. Sangue non del tutto asciutto. Accanto altre chiazze più piccole si allontanano fitte lungo il muro perdendosi nel buio. Da una finestra giunge a tratti un fischiettare sommesso. Un gatto nero mi sguscia accanto scomparendo nell’ombra alle mie spalle. Qualche metro più avanti il vicolo termina in una lunga ripidissima scala che conduce a una botola fradicia e rappezzata. Il fischiettare è ora più nitido. Forse qualcuno intento a imbottigliare vino o ad accatastare legna, penso mentre istintivamente riprendo l’arietta in contrappunto e… Un minuto dopo le mie nocche percuotono la porticina con tutta la forza rimasta. «Apra Barone!» «Temo di non esserne in grado» la voce baritonale ha preso il posto del fischio e giunge nitida da dietro la botola. «Sono legato come un salame». Provo a scuotere il portello con uno spintone, ma invano. «Bisogna sollevare il ferro morto, amico mio. Possedete una spada o un pugnale?» Mi viene in mente il sottobicchiere affondato nella tasca. Lo infilo nella fessura facendolo scorrere piano verso l’alto. Al quarto tentativo la botola si apre e quasi precipito all’interno inciampando nel gradino. «Dunque ha riconosciuto la mia ballata. Notevole.» «Penso di aver riconosciuto anche vostro fratello, ora che vi osservo meglio.» «Il mio gemello. Secondogenito per quaranta minuti» sorride il barone massaggiandosi i polsi. «Un usurpatore, dunque. Bisogna dare subito l’allarme. E chiamare un medico per la vostra ferita.» «Calma, amico mio. Io sto benissimo. È stato Rinaldo a ferirsi nel duello di stanotte. Io a quel punto mi sono arreso prima che finissimo per farci male davvero.» «E se vi avesse ucciso?» «Sciocchezze. Ha bisogno di tenermi vivo per estorcermi tutte le informazioni necessarie

Il cavaliere inesistente – Apricale 2016

Quarto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016. Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni. Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del cavaliere inesistente! Il cavaliere inesistente (oppure no) e il vecchio musicista (oppure no) di Manuela Romeo Non è il gatto parlante a sorprendermi: ne è piena la letteratura. Non è l’austerità della pietra grigia a incutermi soggezione: mi fa sentire a casa. Non è il canto lontano delle rane a turbarmi: di acquitrini sono piene le campagne battute dai cavalieri, la loro nenia mi rasserena. A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. Mi trascino in salita tra le case che il tempo ha gettato come per scherzo, a manciate, sui colli intorno a me. Dame e baroni, contadini e artigiani, cavalieri di tutti i tempi devono essere passati di qua. E anch’io, che mi porto addosso il peso di un’armatura che mi schiaccia le ossa che non ho. Dentro questo involucro di ferro che emette suoni striduli, io sono vuoto, disfatto, consistente di niente. Non che io sia frivolo o privo di sostanza e significato: sono un cavaliere ricco di idee e curiosità. Ad esempio un paio di giorni fa, nell’ora del tramonto, proprio qui, davanti alle grandi fontane della piazza, un tale dall’aria misteriosa ha attirato il mio interesse. C’era qualcosa di severo e malinconico nel suo portamento. Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo. Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo. Si guardava intorno, non rideva, né sorrideva, la sua bocca conosceva solo la smorfia del beffardo seduttore. Fingeva premure nei confronti degli occasionali interlocutori ma accendeva uno sguardo che diceva “Che ne sai della mia vita? Sono mica uno qualunque io. Vengo dritto dritto da un set di Hollywood e posso legarti a me in un istante, per la vita, fosse anche per un mio capriccio. Fai bene a temermi, potrei diventare la tua ossessione”. Corteggiava tutte le donne del paese, di tutte le età, ma esibiva con più evidenza una seduzione nei confronti di se stesso, in fondo era innamorato pazzo solo della propria arte. Lo manifestava canticchiando arie d’opera, muovendo le belle dita sul muretto come sulla tastiera di un pianoforte e mimando, occhi chiusi, la direzione di un grande concerto per orchestra. Ce la metteva tutta perché voleva piacere e giocava tutte le sue carte per catturare l’attenzione altrui. Non aveva conquistato la mia simpatia, ma di certo la mia curiosità. Era un personaggio sui cui valeva la pena indagare o che poteva fornirmi indizi utili per fare chiarezza su che cosa facessero un cavaliere inesistente e un vecchio sciupafemmine in un posto come questo. Così, stamani, rieccomi sulla piazza del borgo a fissare il castello sonnolento e la torre col suo orologio severo. Prima o poi, il mio uomo passerà di qua. Il gatto parlante attraversa la piazza senza parlare, mi strizza l’occhio. Che mi legga nel pensiero? Eccolo, il mio uomo, appare all’improvviso come il primo violino di un’orchestra e avanza immaginandosi gli occhi di una platea infinita addosso. “Per caso ha visto vagabondare un gatto nero?”, la voce è chiara, ma non profonda. Che sia un tenore? Mi chiedo. “Da ieri avrò incontrato almeno una decina di gatti, almeno cinque o sei erano neri. Forse lei si sta riferendo a un gatto in particolare, con qualche caratteristica curiosa e insolita?”, chiedo al mio interlocutore che si avvolge in un unico gesto solenne e deciso nel suo anacronistico mantello di raso. “Beh, sì, insomma, trattasi di un gatto speciale, potrei dire magico.” “Ma certo, caro signore, questi, si sa, sono luoghi in cui tanto tempo fa streghe e megere furono perseguitate, processate e massacrate o arse vive sotto gli occhi della folla crudele, bramosa di atrocità e fatti di sangue. Queste creature del demonio, si dice, si sono poi impossessate delle anime dei gatti neri e le hanno moltiplicate nel fluire delle generazioni”. “Già, ma il gatto che cerco io è buono e simpatico” dice “La sola cosa che lo distingue dagli altri gatti è che, se gli gira, ha un mucchio di storie da raccontare.” Il mio uomo ora è sceso dal podio della sua solitudine, si guarda attorno sornione. “Eccolo”, esclama ad un tratto. “E’ quel gattone laggiù, proprio ora sta inarcando la schiena e sta stiracchiandosi. Lo vede?” Avevo bisogno di quel gatto, creatura buona o malvagia che fosse: era l’unico che potesse aiutare sia me, sia il mio nuovo compagno, un vecchio musicista oppure no. Quel diavolo d’un gatto mi passa davanti muovendo le anche come un divo e pretendendo attenzione. “Vuole che lo seguiamo, ci porterà in qualche luogo segreto e magico, vedrai. Dai, andiamo”, non esisto, ma so trovare un timbro di voce convincente, all’occorrenza. Il presunto vecchio musicista sembra non aver notato che sono un’armatura senza uomo, gli sembra normale il vuoto che mi riempie, il niente che mi appartiene. Sa guardare oltre, si vuole fidare di me, perché anche lui ha bisogno di andare in fondo a questo mistero. Ci incamminiamo fianco a fianco, io cigolando lui intonando una qualche melodia, prendendo la salita ripida e disconnessa che conduce in cima al paese, dentro il grappolo di case. Non incontriamo nessuno lungo il sentiero, non udiamo voci, non si aprono porte o persiane. Anche i fantasmi stanno attenti a non essere maldestri, in

  • 1
  • 2