Sabato 29 novembre, oggi, Pino Petruzzelli terrà ad Officina letteraria un Laboratorio che ha per tema il monologo, intitolato “Viaggiare, ascoltare, interpretare”. Questa mattina ci siamo incontrati e abbiamo fatto una chiacchierata davanti a un caffè e un cappuccino, al riparo dalla pioggia fine che cadeva sulla spianata di Castelletto. Faccio subito mea culpa con Pino e gli dico che non ho mai visto nessuno dei suoi spettacoli e che per cercare di conoscerlo un po’, prima del nostro incontro, ho iniziato a leggere il suo libro “Gli ultimi” , non l’ho ancora finito, però, aggiungo. Pino sorride, e il sorriso è la prima cosa che mi colpisce di lui, prima il sorriso, poi il timbro della voce e i capelli bianchi e cotonosi che fanno venire voglia di accarezzarli tanto sembrano morbidi. Ha tutta l’aria di una persona che sta bene dove sta, che abita comodamente il suo corpo e la sua vita, mi sembra felice, e questo mi piace molto. Ho con me un quaderno sul quale la sera prima ho diligentemente segnato le domande da porgli e che non gli farò; secondo mea culpa, non ho mai intervistato nessuno, e sono agitata, con la testa che mi gira e la lingua allappata. Pino, che, oltre a essere un autore e un attore, si definisce un appassionato ricercatore di geografie umane, se ne accorge e mi viene in soccorso iniziando a parlare. “Pino Petruzzelli si definisce un appassionato ricercatore di geografie umane” Ciò che mi colpisce nella biografia di Pino Petruzzelli è che la maggior parte del suo lavoro è dedicato al racconto di tutte quelle vite che se ne stanno, bistrattate, ai margini della così detta società civile; Pino racconta degli zingari, degli immigrati, di chi prova a farcela onestamente, rimanendo coerente a se stesso, racconta degli ultimi. Gli chiedo perché. Mi risponde che preferisce lavorare così, dedicandosi a ciò che gli interessa davvero, piuttosto che andare in TV, nulla contro la TV o internet, aggiunge, non è il mezzo in sé, ma l’uso scriteriato che ne facciamo. Mi dice che è iniziato tutto per caso, o quasi, e che finito il liceo ad Ancona pensava di iscriversi a Chimica, che il teatro era, allora, solo un attività secondaria, un modo per passare il tempo con gli amici. Invece, su suggerimento di sua madre, provò ad entrare all’ Accademia d’arte drammatica “Silvio D’Amico” e ci riuscì. Mi racconta che dopo l’accademia ci furono i primi lavori a teatro, l’Orestea con Cammilleri, ad esempio, fino all’ingaggio al Teatro della Tosse e il trasferimento a Genova. Nel 1988, insieme a Paola Piacentini, fonda il Centro Teatro Ipotesi che si occupa di tematiche sociali e dell’integrazione tra culture diverse. Pino scrive e porta in scena i suoi spettacoli, “Non chiamarmi zingaro” (2009), “La storia di Tonle” (2010), tratto ad un romanzo di Mario Rigoni Stern, “Di uomini e di vini” (2007) e molti altri ancora. Scrittura e teatro. Come scrivi?, gli chiedo, a mano, con una matita, su fogli di carta semplice, mi risponde, scrivo, scrivo e scrivo, poi, quando ho finito, inizio il lavoro di taglio e cesello. “Come scrivi ?, gli chiedo, a mano, con una matita, su fogli di carta semplice, mi risponde, scrivo, scrivo e scrivo, poi, quando ho finito, inizio il lavoro di taglio e cesello.” È passata un’ora, Pino deve andare, gli faccio un’ultima domanda, di cosa vorrebbe raccontare nei prossimi lavori. Forse, dice, dell’infanzia, mi dice, dei bambini. Fuori dal bar la pioggia continua a cadere, ci stringiamo la mano. Ci vediamo sabato al Laboratorio, gli dico. Mi sorride con il suo sorriso aperto e se ne va. Non so se voglio scrivere un monologo, anzi, al momento direi di no, non voglio scrivere un monologo, ma credo che passare un sabato con Pino Petruzzelli e l’umanità che ha incontrato e che si porta dietro possa essere davvero un bel modo di passare il tempo e di capire quelle vite che sono così diverse dalla mia.
È partita poco più di una settimana fa la stagione teatrale 2014 /2015 al Teatro dell’Archivolto. Ad aprirla Neri Marcorè e la Banda Osiris con lo spettacolo Beatles Submarine, testi e regia di Giorgio Gallione. Non un tributo ai quattro di Liverpool, ma uno spettacolo surreale e visionario che “costringe” lo spettatore a salire sul sottomarino giallo insieme a Paul, John, Ringo e George che a distanza di cinquant’anni sembra non abbiano mai smesso di suonare. “Paul, John, Ringo e George che a distanza di cinquant’anni sembra non abbiano mai smesso di suonare.” Le musiche, interpretate e rivisitate dalla Banda Osiris, si alternano a brevi monologhi durante i quali Neri Marcorè, nella doppia veste di cantante e attore, racconta la storia degli “scarafaggi”, dalla prima ospitata televisiva alla morte per mano di Mark David Chapman di John Lennon. E poi ancora la beatlesmania, le poesie di Paul McCartney, i racconti di Lennon, e le pagine di Alice di Lewis Carrol. Beatles submarine mi ha divertito ed emozionato, mi ha fatto cantare e mi ha lasciato con un po’ di nostalgia per non aver vissuto l’epoca dei Fab Four. Al termine dello spettacolo una sorpresa per gli spettatori, che si ripeterà per tutte e cinque le produzioni dell’Archivolto. Una volta calato il sipario il pubblico potrà fermarsi in sala e incontrare Giorgio Gallione, che racconterà come nasce uno spettacolo, dall’idea alla versione definitiva, e che risponderà alle domande e alla curiosità dei presenti. Leggere uno spettacolo è un modo per avvicinare il teatro agli spettatori, creando una via privilegiata di comunicazione, per me è stato un modo per appropriarmi ancora di più dello spettacolo che avevo appena visto, cogliendo dettagli e sfumature che avevo trascurato. Da ripetere.