Il 20 settembre 2016 uscirà in tutte le librerie Sei sempre stato qui di Eugenio Gardella, edito da Frassinelli. Sembra una notizia normale per il sito di una scuola di scrittura, ma, invece, questa notizia è, per noi, estremamente importante, perché Eugenio Gardella è il primo scrittore che, dopo aver affrontato un percorso di crescita in Officina Letteraria, sia approdato alla meritata pubblicazione. Esordisce, si potrebbe dire. E noi con lui. Per festeggiare, mercoledì 28 settembre alle ore 18:30 la nostra coordinatrice Emilia Marasco presenterà il romanzo di Eugenio a L’Amico Ritrovato di Genova. Abbiamo chiesto a Eugenio di scrivere due righe sul libro, su di lui, su di noi. Dicembre del 2011, nasce Officina letteraria e mi iscrivo. Provo a buttarmi. Lì conosco Emilia Marasco scrittrice, fondatrice della scuola e docente di arte contemporanea e scrittura creativa. I primi giorni in aula, dopo troppi anni di solitaria scrittura da autodidatta alle spalle, trovo persone con la mia stessa passione, trovo un clima di scambio e di confronto. Scriviamo molto, ridiamo e scherziamo anche se a volte non è facile. Per me così refrattario alle regole è faticoso. Ricordo i racconti da improvvisare in cinque minuti poi in tre e poi in due. È un po’ come tornare ai primi giorni di scuola, ma è anche una ventata di freschezza e di entusiasmo. Poi leggo la Memoria impossibile il primo libro di Emilia, sull’adozione dei suoi figli, e mi colpisce per la sua verità. Anche io sono padre adottivo, certe cose non mi lasciano indifferente. Da anni voglio scrivere la storia della nostra famiglia. Dopo qualche giorno Emilia, tiene una lezione sul coraggio autobiografico. Capisco che può essere la strada per l’universalità. Inizio Sei sempre stato qui. Nel frattempo scrivo altri pezzi per Officina Letteraria. Trovare l’incipit, la voce, i punti di vista, stare nel numero di battute, asciugare, lavorare alle chiuse. Comincio a evidenziare un metodo. Comincio ad avere la sensazione che stia succedendo qualcosa. Emilia e Claudia Priano sono d’accordo nel dire che sono arrivato già fatto e finito, con già la mia cifra letteraria, ma io non sono del tutto d’accordo. Officina mi sta donando qualcosa di inestimabile, un ambiente fertile, un percorso di crescita dove il mio background viene fuori, dove imparo a essere consapevole dei meccanismi che utilizzavo da anni per scrivere. Specchiandomi in quello che le mie pagine provocano nei miei compagni, in Emilia e Claudia apprendo una lezione centrale. La consapevolezza di ciò che sto facendo. Alla fine del primo anno andiamo tutti a fare una uscita sui prati, c’è qualcosa di magico nell’aria, sappiamo che questo nostro corso è stato speciale. Durante l’estate lavoro al mio libro. Scrivo tutta la notte. Tutte le notti. A ottobre arrivo al secondo anno di Officina Letteraria pieno di aspettative, con Sei sempre stato qui più o meno finito nello zaino. Claudia non c’è più, ma la gentile anima di Emilia regge le fondamenta. Conosco Laura Bosio e lei mi colpisce con la sua umana professionalità, raccolgo il coraggio e le dò il mio romanzo, le piace e sceglie di utilizzarne il prologo per dare un prodigioso esempio di editing a tutti noi. Partecipiamo ad alcuni indimenticabili workshop, conosciamo i reading debordanti di Paolo Nori e i pazzeschi esercizi per strada, bendati, proposti da Giulio Mozzi. Poi anche questo anno finisce, porto a termine l’editing del mio libro con Laura Bosio e ancora qualche reading con Officina. Un po’ soffro di nostalgia. Passa un anno, ho il tempo di scrivere un altro romanzo e alla fine Emilia mi dà il contatto di un agente letterario. Le mando Sei sempre stato qui. Chissà, mi dico, magari un colpo di fortuna. Dopo qualche giorno ricevo una miracolosa telefonata. Grazie Officina.
Valeria Dimaggio, Stefano Isidoro Radoani, Annalisa Pisoni raccontano ognuno con la propria poetica un’esperienza molto privata, attraverso momenti simbolici che rivelano la vita interiore del soggetto. Sono narrazioni di temi che spesso oscillano fra l’elusione e l’esibizione: il cambio d’identità sessuale e la malattia, qui sono affrontati senza ricerca di fascinazione, e con interpretazioni molto personali. Valeria Dimaggio con Io sono Roberto ci conduce con grazia verso la rinascita di Roberto, libero dalla gabbia di un corpo in cui non si riconosceva e che ora mostra con disinvoltura e ironia. Stefano Isidoro Radoani con Exit, parla di sé autoritraendosi e ci mostra la possibilità di poter convivere col dolore fisico, con la paura di non poter più controllare il proprio corpo, trovando una via d’uscita. Annalisa Pisoni con il video, dal linguaggio più onirico, Anatomia di un battito rappresenta come ricordi e pensieri, anche in un fisico esanime, abbiano la forza di modellare le cose della realtà, anche oltre i limiti della vita individuale. In queste narrazioni il corpo è al centro di paure e tabù di noi contemporanei, oggi più che mai alla ricerca dell’eterna giovinezza e di una salute e di una forma perfette, e così davanti a queste immagini è probabile uno smarrimento iniziale destinato a mutarsi in una sottile sensazione benefica, che deriva forse dall’empatia con i soggetti, con la loro intensità che ci fa diventare non più solo spettatori ma anche partecipi della loro storia. Piera Cavalieri
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi. Questo è il primo, se non lo aveste ancora letto, questo il secondo e questo è il terzo. “Non disponendo di un cavatappi, Kitano recise la carotide della bottiglia con un colpo secco, di taglio, della mano destra”. Si può recidere la carotide di una bottiglia? Sì, certo: visto che la bottiglia ha il collo. Ma… Ma il collo della bottiglia non è veramente un collo, non è un collo come il mio e il tuo; e non ci ha dentro la carotide. Tuttavia noi diciamo abitualmente “il collo della bottiglia”, senza contare quel tipo che voleva “spezzare le reni alla Grecia”, quell’altro che vuole “tagliare le gambe alla concorrenza”, eccetera eccetera. Si dice “collo”, o “reni”, o “gambe”, in queste espressioni, per modo di dire. Ecco: la quarta lezione concernerà l’uso delle parole “per modo di dire”. Si partirà dai modi di dire consolidati, dei quali non ci accorgiamo nemmeno (come quelli già citati: che sono, nel vocabolario della retorica, delle catacresi), per arrivare a quelli basati su relazioni e analogie facilmente intuibili (esempio classico: “un mare pieno di vele”, per dire “barche”), a quelli un po’ meno immediatamente intuibili (“Due volte nella polvere, / due volte sull’altar”: Manzoni, Il 5 maggio), per arrivare a quelli quasi inaccessibili, derivanti da associazioni mentali proprie dello scrittore (“In sé da simulacro a fiamma vera / errando”: Ungaretti, L’isola). Si esamineranno quindi modi di dire diversissimi: alcuni codificati e altri inventivi; alcuni tipici della prosa e altri della poesia; alcuni basati su aspetti visivi, altri su concetti, altri ancora su pure immaginazioni, altri perfino su puri e semplici lapsus. Gli esercizi consisteranno nell’esplorazione del “campo semantico” (che è anch’esso un modo di dire, per indicare “un insieme di parole di una stessa lingua che si riferiscono ad uno stesso gruppo organizzato di significati in qualche modo legati tra di loro” – la definizione è di Wikipedia) e quindi della potenzialità espressive (e anche ornamentali, perché no?) del lavoro di sostituzione e sovrapposizione di significati. Per tornare all’esempio iniziale: ricordiamoci che una mano non taglia. Anche in quel “di taglio” c’è un significato sovrapposto a un altro (e ricordiamoci che “sovrapporre” un significato a un altro non è come “sovrapporre” una tazza al suo piatto: anche lì c’è una “sovrapposizione” di significati…).
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi. Questo è il primo, se non lo aveste ancora letto, e questo il secondo. “Solo e pensoso i più deserti campi / vo misurando a passi tardi e lenti”. Questo è l’inizio di un famoso (o celebre?) sonetto di Petrarca. Guardiamo gli aggettivi. “Solo e pensoso”: due aggettivi per dire due cose diverse (o distinte?) ma combinate (o intrecciate?), che ci restituiscono un’immagine vivida (o concreta?) del poeta che malinconicamente (o tristemente?) va a spasso in campagna. Ma: “tardi e lenti”: qui la faccenda è diversa (o è un altro paio di maniche?). A meno di essere Usain Bolt o qualcosa del genere, se facciamo passi “tardi” (o tranquilli? magari bradipali?) li facciamo anche “lenti” (o quieti? calmi?). E poi, di quella “lentezza” già avevamo avuto sentore grazie a quel “pensoso” (provate a immaginarvi un Usain Bolt che corre “pensoso” i 100 metri), grazie a quel “vo misurando” che sembra indicare un movimento accurato (o preciso? meditato?) e, appunto, lento: come un compasso (non saranno allora passi compassati?). Non possiamo cavarcela dicendo che Petrarca aveva bisogno di una parola da far rima con “intenti” (“e porto gli occhi verso terra intenti / ove vestigio uman l’arena stampi”): primo, perché Petrarca era fin troppo (o molto? o: mostruosamente) bravo (o abile? avveduto? esperto?), e in un sonetto nel quale aveva scelto la difficile (l’ardua?) rima in :ampi non andava certo (sicuramente?) in panico per una rima in :enti, che ci son parole a bizzeffe (o in abbondanza?); secondo, perché solo riflettendo un poco (o un po’? un pochino?) ci accorgiamo che non solo (o non soltanto?) il significato letterale (o preciso? banale?)delle parole conta, in Petrarca, ma anche – e tanto – il loro suono: allora l’allitterazione in “l” conterà qualcosa, così come quella in “s” nella prima coppia d’aggettivi… Il modo più pratico per capire se un aggettivo va bene è: provare a sostituirlo con un altro, confrontare i significati che così si generano. Idem per gli avverbi (che sono, per così dire, gli “aggettivi dei verbi”). E così si scoprirà anche, magari, che l’aggettivo (o l’avverbio) proprio non serviva. La lezione su aggettivi e avverbi comincerà con alcuni giocosi esercizi e proseguirà con la seriosissima analisi di testi letterari e scientifici; includerà un approfondimento sull’uso dei dizionari (non solo quello tradizionale ma anche quelli dei sinonimi, i dizionari visuali ecc.).
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi che pubblicheremo a cadenza settimanale. Questo è il primo, se non lo aveste ancora letto. Chi abbia letto Mary Poppins si ricorderà che a un certo punto vi si parla di “un uomo con una gamba di legno che si chiama Smith”. E qualcuno non manca di domandare: “Come si chiama l’altra gamba?”. La costruzione della frase, l’incastro e la combinazione delle proposizioni, la collocazione delle parole all’interno della proposizione: di tutto questo si ragionerà attraverso una serie di esercizi di montaggio, smontaggio e rimontaggio di brevi testi esemplari, estratti sia dalla tradizione letteraria sia da opere scientifiche sia dall’attività giornalistica. Lo scopo, ovviamente, non è di determinare quale sia il modo giusto di fare una frase. Ovviamente lo scopo non è di determinare quale sia il giusto modo di fare una frase. Lo scopo, ovviamente, non è di determinare quale sia, per fare una frase, il modo giusto. Il giusto modo di fare una frase: ovviamente lo scopo non è determinarlo. Non è lo scopo, ovviamente, il modo giusto di fare una frase, di determinarlo. Il modo, determinarlo giusto, di ovviamente, lo scopo non è fare una frase. L’ultima frase non sta in piedi (e quindi dice la verità: lo scopo non è fare una frase). La penultima traballa, ma riesce ancora a far passare il concetto (sembra una frase trascritta da una conversazione). Le precedenti sono tutte “a norma”: ma hanno pur sempre dei significati, o delle sfumature di significato, un po’ diversi. Si tratta di scegliere quella che fa più al nostro comodo Alla contrapposizione classica tra paratassi (= tante frasi semplici tutte sullo stesso piano) e ipotassi (= una grande frase complessa che ne include altre) si aggiungeranno altre distinzioni, a volte scientifiche e a volte più emotive: tra prosa analitica e prosa sintetica, prosa lenta e prosa veloce, prosa inclusiva e prosa dispersiva, prosa con variazioni e prosa costante. Tenendo sempre conto che ciascun tipo di testo, ciascuno scopo comunicativo ha bisogno della sua specifica “frase giusta”.
Il nostro agente segreto Qfwfq è ancora a caccia di lettori per le strade della città… oggi ne ha incontrati due molto particolari! 1. All’ora di pranzo vado alla Posta, pensando di trovare poca gente. Sbagliato. Prendo il numero e mi metto in coda, cupamente. Non si riesce a riposare davvero in quelle situazioni. Non lo fa nessuno, un po’ per non mancare l’unico, breve, momento giusto, un po’ perché questa storia delle lettere è infernale. Si fa la coda per lettera, non solo per numero. La P di Pacchi rimane sempre indietro e a un certo punto scoppia la polemica. Contro gli addetti, che si dichiarano innocenti perché il computer gestisce la coda così. La ribellione a quel punto è in corso. Seguendo queste vicende, anche per uscirne incolume, solo dopo un po’ mi accorgo che il signore seduto vicino a me sta leggendo. Anziano, certamente in pensione, con le sue mani grandi e consumate tiene in mano un e-reader. Nella destra, fra le dita, spunta il suo biglietto: lettera E. Era già lì al mio arrivo. Chiedo. “Sto leggendo un giallo, il titolo non me lo ricordo”. Controlla: “Il settimo peccatore di Elizabeth Peters. Passo il tempo. Qui si aspetta sempre. Mi porto dietro questo che sta in tasca ed è leggero, sottile. Mi ha già telefonato mia moglie che deve buttare la pasta. Pensa che io qui mi diverta”. Intanto tocca a lui. “Tante cose”, “Arrivederci”. Non avevo mai sentito nominare Elizabeth Peters. È uno dei tanti pseudonimi di una egittologa statunitense, che pubblicava saggi col suo vero nome, Barbara Mertz, e gialli con altri inventati, vincendo il Premio Agatha Christie. Molti sono inediti in Italia. 2. Metà mattina, primo tepore dopo giorni senza tregua. Seduto su una panchina al sole, in una piazzetta della Foce, un signore tiene in mano un libro vecchio dalla copertina rossa. Legge e intanto fuma un sigaro. Incontro rapido. Lui è molto concentrato, io di corsa. “È La tregua di Primo Levi”, mi dice. Lo lascio lì dentro e scappo.
Giulio Mozzi, maestro di Officina per il Laboratorio di Stile, ci presenta il suo workshop con quattro interventi introduttivi che pubblicheremo a cadenza settimanale. Ecco il secondo. C’è chi dice che la punteggiatura serva soprattutto a indicare pause e sospensioni del discorso scritto (la virgola è una “pausa breve”, il punto è una “pausa lunga”, ecc.), come se fosse una notazione delle pause che facciamo nel discorso parlato (legate alla respirazione, alle esigenze espressive ecc.). E c’è chi dice che la punteggiatura serva soprattutto a rendere visibile l’articolazione sintattica e logica del discorso scritto, come le parentesi tonde quadre graffe delle espressioni matematiche. In realtà la punteggiatura fa entrambe le cose, e nessuna delle due fino in fondo. Provate a registrare una conversazione a tavola e poi a trascriverla: vi accorgerete che le pause non hanno nulla che fare con la sintassi e la logica – e assai poco con l’espressività. D’altra parte, molti dei testi che leggiamo recano una punteggiatura non necessariamente coerente con le intenzioni dell’autore (pensiamo ai testi tradotti da lingue che abbiano un’articolazione sintattica diversa dall’italiano: e non serve pensare al giapponese, bastano l’inglese o il tedesco). Altri testi che leggiamo, addirittura, recano una punteggiatura inventata: né Omero né Virgilio punteggiavano – ma anche Petrarca e Boccaccio avevano un sistema di punteggiatura completamente diverso dal nostro. La lezione sulla punteggiatura non fornirà regole e regolette: cercherà piuttosto di far sviluppare una sensibilità per la punteggiatura e, soprattutto, per gli effetti di senso che la punteggiatura produce (provate a confrontare: “Luisa lavora, Antonio dorme” e “Luisa lavora. Antonio dorme”: vi pare che le due battute dicano esattamente la stessa cosa?). Si lavorerà con esercizi semplici e (si spera) divertenti; ci si confronterà con la punteggiatura dei classici e dei contemporanei; si farà qualche approfondimento storico; si getterà uno sguardo nel campo della poesia, dove l’a capo alla fine del verso è un formidabile e specialissimo segno di punteggiatura (confrontate: “Di che reggimento siete, fratelli?” e “Di che reggimento / siete / fratelli”: non è la stessa cosa!).
Guest post di Elisa Tonani, Maestra di Officina Si usa a volte, tra le tante locuzioni cristallizzate che quotidianamente accompagnano il nostro eloquio, il sintagma “felicità espressiva”. La felicità data dalla bellezza della lingua, dal trovarsi di fronte a un concetto ben formulato. Felicità non solo di chi legge (e può rinvenire, nel discorso di un altro, sé stesso, qualcosa che lo identifica, in cui può riconoscersi), ma anche di chi scrive (di chi sente maturare in sé e sgorgare fuori di sé – già altre, non più sue – le parole giuste, insostituibili, quelle che definiscono la cosa in modo perfetto). È la ricerca di questa seconda felicità che fa accostare a un percorso di scrittura creativa, è questa la sete che chi scrive cerca di placare nella lettura per poi suscitarne altra tramite l’atto di scrivere. C’è una bellezza nella sfida che ci presenta una materia che ci sfugge eppure ci appartiene, che ci appartiene eppure ci sfugge: la lingua che parliamo, la punteggiatura che usiamo… cose nostre eppure così inclini a scivolare via… Siamo perlopiù abituati a considerare la punteggiatura una costrizione imposta dal di fuori e di cui non si sono mai ben capite le regole; oppure un sistema troppo lasco che sfugge da tutte le parti e di cui è impossibile tenere le fila. O al contrario qualcosa da spargere a caso nel testo, appellandosi al suo valore soggettivo! Ma lo stile è personale, non arbitrario. A volte basta cambiare prospettiva, basta illuminare di una luce diversa, per capire le cose che ci stanno davanti da sempre, che si danno un po’ per scontate, che si considerano addirittura irrilevanti. A volte basta cambiare prospettiva, basta illuminare di una luce diversa, per capire le cose che ci stanno davanti da sempre, che si danno un po’ per scontate, che si considerano addirittura irrilevanti. In un luogo come Officina Letteraria – l’ho sperimentato personalmente – succede qualcosa del genere: entrano in crisi le abitudini consolidate, ci si lascia alle spalle un po’ del bagaglio di certezze che ormai diamo per scontate, ed entra in gioco altro: la creatività, l’immaginazione, l’esplorazione, la possibilità di sperimentare e condividere percorsi nuovi. Un giorno arrivo a Officina letteraria per insegnare (la punteggiatura, questa Cenerentola che vorrei accompagnare fuori dalle grammatiche e dentro alle storie, come in una fiaba), e per prima cosa imparo. Il processo è avviato, e non si arresta: come potrebbe essere altrimenti se lo spirito che anima tutto è quello di Emilia Marasco? Un giorno, una “maestra” di Officina, una scrittrice curiosa e appassionata, mi ascolta, riflette, si confida, mi dice che si sta abituando a pensare anche agli aspetti della grammatica delle storie e della lingua come a dei personaggi che vivono, agiscono, interagiscono con noi; e poi mi coinvolge sulla sua pagina Facebook con domande che sembrano un gioco: “Che cosa mangiano le parentesi? in che stagione si riproducono le virgole? e che cos’è la punteggiatura bianca?”. Dietro questo gioco c’è tutta l’intelligenza arguta e la felicità inventiva di Ester Armanino. Nell’inevitabile torpore in cui, dopo ormai dieci anni di dedizione, giacciono le mie competenze sulla punteggiatura, si accende qualcosa di nuovo, come una piccola scintilla che ne innesca altre, di cui si intravede la potenziale inarrestabilità. A pensarci bene, possiamo immaginare la struttura del discorso come un organismo vivente, naturale A pensarci bene, possiamo immaginare la struttura del discorso come un organismo vivente, naturale, e i segni di punteggiatura, con le loro funzioni caratteristiche, come elementi strutturali di quel mondo vegetale, segni di una foresta. Ecco allora che le parentesi mangiano l’edera che si arrampica (e che se esagera è un parassita mica da poco!) sul tronco del discorso. Le parentesi fagocitano dentro di sé ciò che, se diventa troppo debordante, rischia di cancellare ciò a cui si sostiene, come l’edera tende a soffocare il tronco degli alberi ricoprendolo in modo indiscriminato. Le virgole si riproducono in primavera insieme alle gemme e ai germogli; anzi, sono esse stesse piccoli germogli che permettono al discorso di espandersi. Ma se in autunno il contadino non pota i suoi alberi, questi ramificano troppo. E allora anche le virgole restano lì appese a prolificare. Ma troppi rami non indeboliranno l’albero? Anche in questo caso ci vuole moderazione! Esagerare significa far seccare la pianta: è opportuno potarla. Il punto è la cesoia, la tronchesi del discorso. Bisogna tagliare nei punti giusti, tagliare dove si può, non in corrispondenza dei punti nevralgici della pianta, altrimenti le si impedisce di svilupparsi nel modo giusto. Si può pure voler coltivare un bonsai, ma anche in questo caso non si potranno separare le radici dal tronco, non si potrà recidere ciò che è indivisibile. La punteggiatura bianca, la più enigmatica e affascinante, è una nebbia. Quando ci sei immerso ti sembra il nulla. Ti sembra che abbia cancellato tutte le cose familiari e note. Ma dietro e dentro di lei c’è ancora tutto. Solo che ora per vederlo servono creatività, immaginazione, intuizione… riuscite a vedere l’invisibile?
Ritorna il nostro agente Qfwfq! Prima di lasciare spazio alle sue inchieste sui passanti sorpresi con un libro in mano, riportiamo una breve dichiarazione che ha rilasciato alla redazione di Officina per spiegare il suo lavoro: Hai voglia dire: scrivi. E chi ti legge? Officina Letteraria è un posto dove la gente legge e scrive. C’è sempre un motivo per farlo. Ogni tanto le parole diventano libri veri e propri. Non si sa che fine facciano. Se tu pubblichi e qualcuno ti conosce, certo che il libro lo tiene. Ma tutti gli altri? Quelli che per prima cosa di te sanno quello? Non la stretta di mano, non il tuo modo di fare, neppure dove vivi e in fin dei conti chi sei. Le persone che proprio usano un po’ del loro tempo per leggere la tua storia, chi sono? E se non scelgono il tuo libro ma un altro, ci sarà pure un motivo. L’unico modo di saperlo è seguire i libri. Guardare che giri fanno, in che mani sono. Ho deciso di andare in giro e intercettarli. Senza chiedere “che libro hai sul comodino”, perché chi risponde si dà sempre un tono, che dica Kierkegaard o Topolino. No, io li voglio sorprendere mentre leggono per vedere cosa hanno scelto. Perché chi tira fuori un libro in un luogo pubblico, alla vista di tutti, comunque è uno di noi. Uno motivato da qualcosa. Dalla pubblicità, dalla curiosità, dal caso, dal consiglio di un amico, da un obbligo scolastico. Già che ci siamo, controllo anche se legge carta o schermo. Vediamo che coppie si formano tra libri e persone. Tutto il resto è teoria. Vediamo che coppie si formano tra libri e persone. Tutto il resto è teoria. 1) Pochi giorni dopo l’alluvione, salgo su un autobus verso sera. Ancora si pulisce la città, ancora si sente l’odore dell’acqua e della terra sottile che trovi dappertutto. Il 20 è affollato. Sulla piattaforma in fondo c’è un uomo sui 40 anni che legge, in piedi. Un tipo interessante, vestito senza fronzoli, persino rilassato nonostante la postura, le buche e gli ammortizzatori. Continua a leggere anche quando salgono i ragazzi pieni di fango che hanno finito la loro giornata nei negozi e negli scantinati. Una di loro si piazza vicino a lui con la pala bella dritta in mano, oggetto prezioso in quell’emergenza. Non si poteva abbandonare. Si sta stretti ora sull’autobus, ma lui non ha mai staccato gli occhi dalle pagine. Il libro è Caos calmo di Giovanni Veronesi. Gli dico: “Dev’essere avvincente”. Mi risponde: “Abbastanza”, seccato dall’interruzione. Fendo la folla e mi faccio più in là. 2) Al mare d’autunno, in una giornata tersa e calda. L’atmosfera è tutta diversa dall’estate. La gente è più libera perché la spiaggia è libera. Complessivamente, ci si dà anche meno fastidio, non fosse per il cane che continua a selezionare le persone che le piacciono e quelle che non le piacciono. Fra quelle che le piacciono da subito c’è una signora, che stende il suo asciugamano poco lontano, si mette in costume e inizia a leggere. Ha un e-reader, un attrezzo elettronico. Niente carta. È tutta felice di condividere il suo entusiasmo per la saga di Ken Follett, Century Trilogy. Sta leggendo I giorni dell’eternità (1.250 pagine) dopo essersi divorata La caduta dei giganti e L’inverno del mondo. “Li consiglio a tutti”, dice. Spiega che racconta tutto il Novecento vista da cinque punti di vista, cinque famiglie di nazionalità diversa, che quello è l’ultimo volume, che in tutto sono tre e belli spessi. Ma che si leggono di un fiato e si capiscono bene le dinamiche, i pensieri, le vite di chi è nato di qua o di là da un confine. Dice anche che le serve per spiegare meglio a scuola. Una specie di benedizione. Sullo stesso litorale, poco oltre, ma messo molto più al riparo, c’è un signore che legge La lingua del fuoco di Don Winslow. Thriller, molto noir. Dice anche che le serve per spiegare meglio a scuola. Una specie di benedizione. 3) Nella stessa giornata, in due luoghi diversi, ne vedo due molto particolari. Di lettori. Sono fuori della porta di un ufficio pubblico, in coda. Seduti tranquilli. Vicino a me si siede una ragazza che ha voglia di chiacchierare. Io non tanta. Lei fa un controllo incrociato di tutte le carte che deve consegnare, confronta il mio modulo e il suo (che, per la stessa operazione, sono diversi). Sorride molto, è gentile. Io non tanto. A un certo punto si arrende e tira fuori un libro dalla borsa. L’attesa in effetti è lunga. A quel punto io mi interesso e lei non punisce la mia precedente scontrosità. Anzi è tutta contenta di mostrarmi La città di Dio di Louis De Wohl, spiegandomi che è un romanzo su San Benedetto della Croce. Precisa che non è un agiografia, che è divertente. Non riesco a reagire perché San Benedetto in testa ce l’ho, ma il della Croce mi spiazza. Però ora la ragazza è più contenta e intanto è arrivato il mio turno. In tarda mattinata salgo sull’autobus, il 20 e dalle parti dell’Università sale un ragazzo, uno studente evidentemente, con tutto il suo corredo di jeans, maglietta, sneaker non firmate, zaino e cuffiette. Si mette in piedi al centro, dove ci si può appoggiare al corrimano. Non so cosa ascolta, ma legge Gargantua e Pantagruele di François Rabelais, in italiano. Ogni tanto ride e mi fa piacere.
È con grande piacere che vi presentiamo l’ultima novità del blog di Officina Letteraria: il nostro agente segreto Qfwfq. Una misteriosa figura che si aggira per le vie di Genova con l’obiettivo di individuare i lettori tra la folla, prendere nota, e tornare in fretta in redazione a raccontarci le loro abitudini. Se vi riconoscete tra i protagonisti di questa rubrica… probabilmente siete stati pizzicati da Qfwfq! Nessuno sa chi si nasconda dietro a questo pseudonimo ma una cosa è certa: che siate in autobus, in treno o sulla spiaggia non basterà infilare il naso tra le pagine di un libro per nascondervi. Anzi. Qfwfq non aspetta altro… 1. La missione è scovare chi legge. Sono sul 17, direzione Nervi, ancora in centro. Una ragazza sale dove si scende: jeans, cuffiette, zaino con i libri di scuola iniziata da poche settimane. In mano ha Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. Intonso. Si capisce che lo ha appena ritirato ma non lo ha messo via. Forse vuol dare un’occhiata nel tragitto. Si siede e mi avvicino. Toglie le cuffiette. Si chiama Giorgia, carina, gentile. Porta l’apparecchio per i denti. Mi spiega che lo deve leggere per il liceo e lo ha scelto la prof. Già che le ho rivolto la parola, coglie l’occasione per togliersi il dubbio. Prima mi chiede se l’ho letto e dico sì. Perché la sua paura è che si tratti di un libro “storico”, come dice. “Parla mica di guerra? Perché non mi piacciono.” No, dico, no, è un giornalista che ricorda la sua vita. Un po’ mento. Poi scendo, mentre lei ringrazia sorridendo e pure io. Una signora litiga col libro che si è portata. Legge qualche pagina, lo chiude, va a parlare con un’amica, torna, lo riprende, si addormenta sul lettino 2. Un posto dove si scovano i libri è al mare. Giornata calda d’inizio autunno. Una signora litiga col libro che si è portata. Legge qualche pagina, lo chiude, va a parlare con un’amica, torna, lo riprende, si addormenta sul lettino, va un po’ avanti, arriva la nipote per chiederle se può fare il bagno. Un tormento. Il libro è La cortigiana di Sarah Dunant. La signora – costume intero color tortora e pesca, quasi da piscina – è circa a metà. Le chiedo se è un bel libro. “Non tanto, ma vado avanti perché ormai ce l’ho. Pesantuccio.” La Dunant è una scrittrice inglese e La cortigiana è un romanzo storico ambientato nel Rinascimento, tra Roma e Venezia. La protagonista, Fiammetta Bianchini, nei giorni seguenti il Sacco di Roma viene sfregiata dagli occupanti e fugge a Venezia, dopo avere ingoiato i suoi gioielli più preziosi. Tornando qui e ora sulla spiaggia, quel giorno al mare ci sono altre due persone che leggono. Uno è un uomo sui 40 anni, con la figlia più in là che gioca con le amiche. Lui è proprio immerso ne Il momento è delicato di Niccolò Ammaniti, una raccolta di racconti scritti nell’arco di vent’anni, dal primo durante l’università fino al 2012. Non lo disturbo. Sulla sinistra, altrettanto isolata dal mondo, c’è una signora sui sessanta, in mezzo a un gruppo di amici che si capisce hanno un gran confidenza tra loro. Parlano, scherzano, si prendono in giro, la prendono in giro, la stuzzicano perché non partecipa. Lei, niente. Sta leggendo Una notte all’improvviso di Mary Higgins Clark. Cerco: è un’autrice di best seller americana, definita regina della suspence. Quella storia, in particolare, inizia la vigilia di Natale, sulla Quinta Strada a New York. Un bambino vede il portafoglio cadere dalla tasca di sua madre e una sconosciuta che fulminea lo prende e lo porta via. Il ragazzino la segue e inizia la sua avventura. Bambino per bambino, vorrei riportare l’arrabbiatura di una sorella minore per la maggiore che dalla spiaggia non se ne voleva andare. Le urla: “Ho detto a papà che siete cattive e papà ha detto che ti mette in castigo per 60.000 anni.” Quando si dice un anatema. Ho detto a papà che siete cattive e papà ha detto che ti mette in castigo per 60.000 anni 3. Altro autobus, il 44. Spuntano due libri di grandi dimensioni, belli squadernati nelle mani di chi li ha appena comprati e non vede l’ora di metterci il naso dentro. Ci sono tre persone sedute sulla striscia di sedili in fondo e sono tre donne di generazioni diverse. Potrebbero essere nonna, mamma e figlia. La nonna ha comprato Nuova guida alla Bibbia di Gianfranco Ravasi alla libreria San Paolo. O almeno il sacchetto è quello. Il cardinale, biblista, teologo, offre chiavi di lettura dalla Genesi all’Apocalisse, con mappe, foto, ricostruzioni. Serissimo. La ragazza, sui 13 anni, sfoglia pagina per pagina e le commenta con sua madre. Si tratta di Where We Are. Our band, our story degli One Direction. Glielo devo chiedere, perché non vedo la copertina e non riesco a indovinare. Lei, benevola, mi spiega che “è la band del momento.” Serissima. Prendo atto e mi dileguo.
Mi piace immaginare un percorso nella punteggiatura come l’attraversamento di un territorio misterioso e seducente, ma a tratti impervio e sdrucciolevole, in cui addentrarsi con curiosità e cautela, come ci si addentra in un bosco. La figura della «foresta di segni» o «di simboli» – in cui risuonano echi di suggestioni baudelairiane («forêts de symboles» della famosa poesia-manifesto Correspondences) – si presta, per la sua potenza evocativa, a suggerire per via metaforica lo spazio della scrittura, fatta non solo di lettere (grafemi) ma anche di elementi che stanno “presso” (in greco parà) i grafemi (segni para-grafematici, più noti come segni di punteggiatura) per sostenerli (puntellarli) e per metterli in comunicazione tra loro (avvicinandoli e separandoli al tempo stesso). Ma anche per gettare sul testo in cui si inseriscono una luce dal fascino particolare. I segni di punteggiatura sono come il tracciato che segnala, scandisce, ritma un territorio altrimenti impenetrabile, inaccessibile, senza confini. Le indicazioni di sentiero nel bosco e i segni di punteggiatura nel linguaggio sono modi per rendere “abitabile”, percorribile, ciò che per eccellenza ci sfugge (la natura, il linguaggio). Tutto qua? Allora sono segni che scattano in automatico e che sono validi una volta per tutte? No. Non sono meccanici e fissi come passaggi a livello. I modi per “abitare” lo spazio sono potenzialmente infiniti e riflettono il nostro stile. Dipende da noi investirlo di creatività e bellezza. Esattamente come succede per la lingua, e per la scrittura (letteraria e non). Nessuno parla o scrive in modo identico a un altro. Sfuggire all’omologazione e conquistare spazi sempre maggiori di libertà, di creatività, di bellezza espressiva, dipende anche dal modo in cui sappiamo usare (dosare, calibrare, piegare duttilmente) la punteggiatura. La punteggiatura è lo stile, anzi la quintessenza dello stile, e quindi un tratto personale, identificativo dell’uomo stesso, come scriveva la scrittrice George Sand: «On a dit “le style, c’est l’homme”. La ponctuation est encore plus l’homme que le style». La punteggiatura rappresenta l’uomo più ancora di quanto non lo faccia lo stile. Dobbiamo abituarci a considerare i segni di punteggiatura come nostri alleati nella scrittura, capaci di attivare la musicalità della lingua: «spiriti amici della cui presenza incorporale si nutre il corpo della lingua» (per usare la felice espressione di un filosofo che è stato, non a caso, un grande musicologo, Theodor W. Adorno). Guest post di Elisa Tonani, Maestra di Officina
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