Su Fotografie, Fotopagine e Fotocose. Un post di Giulia Cocchella. Voglio fotografare le nuvole, disse Alfred Stieglitz quasi cent’anni fa. Prese in mano la sua Graflex, si mise in posa (lui, il cielo no, si mettesse un po’ come voleva, il cielo) e da quel momento io credo che la storia della fotografia abbia preso una piega diversa. I suoi Equivalents li pubblicò in serie, accostandoli ad altre fotografie che ritraevano particolari del mondo naturale: li espose insieme a formare un discorso per immagini che fosse, appunto, equivalente al suo sentire. li espose insieme a formare un discorso per immagini Penso a questi orizzonti, a questi intenti così lontani nel tempo, quando guardo le fotografie di Patrizia Traverso. È chiaro che si potrebbe fare un lungo elenco di differenze, ma mi pare di ritrovare lo stesso desiderio di narrazione per accostamento, nonché l’intenzione di usare la fotografia non solo come documento, ma soprattutto come mezzo per ritrovare lo stupore di fronte al già visto, si tratti di un cielo di nuvole o di una palma in mezzo al deserto. “Più che fotografa pura, mi reputo assemblatrice”, dice di sé Patrizia Traverso. Le sue Fotopagine sono in effetti accostamenti di fotografie e testi letterari, poetici, filosofici: le foto, piegate come le pagine di un libro aperto, sono montate su telai di acciaio che fanno da supporto anche alle parole scritte. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: lo scatto è pur sempre l’istantanea di un momento che resta immobile. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: Anche la serie Fotocose ha origine da un’idea combinatoria: oggetti e fotografia. L’oggetto evoca il ricordo e lo rafforza, gli conferisce una terza dimensione, mentre per noi che guardiamo, che non conosciamo bene la storia, genera incidenti fantastici, narrazioni supplementari. È bello lasciarsi guidare e poi perdersi in questi percorsi del ricordo e del sogno. Fotografa di parole, l’hanno definita, ma anche dell’ineffabile, del vento, di ciò che non si mette in posa. Fotografa di suggestioni dai versi di Giorgio Caproni, cui ha dedicato, insieme a Luigi Surdich, “Genova ch’è tutto dire”: un sensibile lavoro fotografico, a metà strada tra l’illustrazione nel suo significato più ampio e la poesia per immagini. Siate curiosi: andate a vedere. L’invito implicito è trovare collegamenti: fili sottili tesi tra le immagini e le parole, tra gli oggetti e le immagini, che legano ciò che vediamo a ciò che sappiamo di noi, utilizzando un processo che a pensarci bene è quello tipico della memoria. “Lo scatto è l’attimo che hai colto e che memorizza l’istante”, dice Patrizia della fotografia, “la messa a fuoco precisa di un’idea”, gli fa eco Stieglitz da lontano.
Recensione di Sara Boero. Lui è tornato è un romanzo inclassificabile: fantascientifico, fantapolitico, irriverente, attuale. Divertente, di quel divertente da brividi lungo la spina dorsale. Basato su una premessa surreale da accettare proprio così come ci viene proposta: nella Germania di oggi Hitler si risveglia. In senso letterale. In un campetto sportivo di Berlino. Il suo ultimo ricordo è che si trovava nel bunker con Eva Braun, poi… il buio. Un lunghissimo buio di quasi settant’anni. La Germania è cambiata, il mondo è cambiato, lui non è cambiato. Ed è tornato. Il suo ultimo ricordo è che si trovava nel bunker con Eva Braun, poi… il buio. Un lunghissimo buio di quasi settant’anni. La Germania è cambiata, il mondo è cambiato, lui non è cambiato. Ed è tornato. Perché lo consiglio a un lettore: Perché Lui è tornato è un libro che ti apre gli occhi sugli abissi in cui rischia di precipitare una nazione durante una crisi globale. L’Hitler redivivo, nel romanzo, compie una funambolica scalata al successo grazie all’attenzione dei media: nessuno, ovviamente, crede che si tratti del vero Hitler. Viene creduto un abilissimo imitatore, un comico, un provocatore dalla satira tagliente. E finisce per ritagliarsi una folla di ammiratori sempre più grande grazie alla televisione, avendo però chiaro in testa un unico obiettivo: ricostituire il Terzo Reich. Lo consiglio, perché Lui è tornato, edito da Bompiani, riesce contemporaneamente nel duplice, difficilissimo obiettivo di far ridere e intrattenere mantenendo il cervello in stato di allerta. In certi momenti, in stato di allarme. Perché lo consiglio a uno scrittore: Ci sono due importanti motivi, secondo me, per cui uno scrittore dovrebbe leggere questo romanzo. Il primo ha a che vedere con la costruzione del personaggio: Lui è tornato è raccontato in prima persona da Adolf Hitler. Un Adolf Hitler assolutamente coerente con il personaggio storico, che però riesce ad essere in qualche modo anche una macchietta di se stesso, senza perdere credibilità. Lo straordinario equilibrio tra la figura storica e la caricatura è uno dei punti di forza di questo romanzo, e sicuramente una lezione da imparare. Una lezione raffinata e difficile. C’è anche, però, una lezione “semplice”: la libertà della scrittura. Il nome di Hitler in Germania fa ancora molta paura e molto effetto. Timur Vermes, al suo esordio alla narrativa, ha avuto il coraggio di farlo tornare: di mettere una nazione intera faccia a faccia con i suoi incubi in maniera elegante, ironica, ma anche crudele. In questo senso è sicuramente un esempio da seguire, a qualsiasi livello: Lui è tornato non è motivato dal “bisogno di provocare”, ma dall’onesta urgenza di una storia da raccontare. Lo consiglio, perché è stato l’esordio che mi ha convinto di più nel 2013 e nel 2015 ne è stato tratto un film.
Ha scritto i titoli di testa per La leggenda del pianista sull’oceano e il payoff delle Olimpiadi invernali di Torino. Conosce l’alfabeto arabo e quello latino. Ha esposto in Austria, Germania, Iran, Pakistan e lavorato con i principali brand della moda italiana. Mescola diversi saperi, tra calligrafia, illustrazione e arte. È Visiting Professor presso la NABA e, dal 2011, Presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana. Francesca Biasetton, di tutte queste cose, difficilmente vi parlerà, perché, come molti suoi concittadini genovesi, è una persona riservata cui bisogna estorcere le informazioni (che, più pacificamente, trovate sul suo sito). Capirete, quindi, come quanto leggerete dopo non sia resoconto della classica intervista organizzata via email o al telefono, ma, più che altro, il frutto di un’amichevole chiacchierata. Nei vicoli di Genova, intorno a un tavolo, davanti a un tè. Sappiamo che sei una lettrice forte: che libro hai sul comodino? Dopo anni di escursioni in terra straniera – e in lingua straniera – un classico: Gadda, La cognizione del dolore. Le discipline creative, come calligrafia e scrittura, si possono insegnare? Si può insegnare la tecnica, si possono dare consigli per l’ascolto, ma sentire, in modo personale, è qualcosa che fa parte del nostro essere unici. Scrittura a mano (e corsivo) stanno scomparendo: cosa perderanno le prossime generazioni? Tempo, con l’illusione di averne guadagnato: il tempo dell’immaginazione, dell’apprendimento, del pensare, del progettare. Perderanno la possibilità di tradurre il proprio pensiero in modo personale. Abbiamo (ancora) presente la differenza tra un manoscritto e un testo digitato? La distanza emotiva tra una lettera d’amore e una email d’amore? Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Si dovrebbero tenere in tensione creativa i diversi strumenti, evitando di essere nostalgici rispetto al passato o eccessivamente fiduciosi nel digitale. Pensare e scrivere: a mano, a macchina, al PC. Quanto incide il mezzo sul contenuto? Scrivere utilizzando il PC ci ha abituati a pensare velocemente, con la possibilità di cambiare facilmente: copia e incolla, fai e disfa: non esistono più la brutta e la bella copia, distinte una dall’altra. Nel mio lavoro mi occupo di forma piuttosto che di contenuto e so che c’è la possibilità di correggere, cambiare, trasformare quello che è stato creato a mano, una volta acquisito con lo scanner. Ma quando si lavora a un originale non c’è margine d’errore, occorre un’altissima concentrazione. La funzione dell’illustrazione rispetto a un testo: didascalia, supporto o pari dignità? Dipende dal contesto, dall’immagine/illustrazione e da cosa si desidera comunicare. Mi piacciono molto le illustrazioni “sintetiche” che lasciano a chi le guarda ampie possibilità di “completarle”. Viceversa, quando un’immagine è molto descrittiva, ci si può concentrare sui numerosi dettagli, e perdersi. Ci hanno detto che odi le font script: il Times New Roman corpo 11 ti piace? Corpo 10; le font script sono un falso, un vorrei ma non posso, un imbroglio: se si vuole rendere un testo speciale, quindi scritto a mano, perché utilizzare una font che imita questa unicità, senza essere unica? Esistono anche macchine che scrivono “a mano”: il destinatario dovrebbe sentirsi offeso da questa finta “preziosità”. Per anni hai scritto migliaia di parole e, adesso, stai sperimentando l’asemic writing? Di che si tratta, esattamente? Scrittura illeggibile, testo aperto, immagine astratta: mette il fruitore in equilibrio tra leggere e guardare. Per me, che ho seguito un percorso di apprendimento della calligrafia formale, studiando i modelli storici, e professionalmente ho scritto “a comando” per i clienti, è stato uno sviluppo naturale: liberarsi delle forme codificate, del testo e, in un primo tempo, anche dai colori. Rompere le regole, ma solo dopo averle apprese. Qual è l’editore italiano con il format grafico che ti piace di più? Mi piace l’impronunciabile 66thand2nd. E sono nostalgica per il minimalismo di Einaudi. Scriveresti un libro intero? Preferirei fare le figure. Il manoscritto formale, il “buono alla prima”, senza possibilità di sbagliare, non appartiene al mio temperamento. Però potrei fare un manoscritto asemic… Hai scritto su carta, vestiti, mobili, corpi, biciclette: il prossimo obiettivo? Tornare a scrivere sui muri, grandi dimensioni. E poi un desiderio che ho da tempo, lavorare con un danzatore: quando ho iniziato a scrivere in grandi dimensioni è sorto spontaneo questo desiderio, perché scrivere “nello spazio” è una sorta di danza, i movimenti non sono più circoscritti al tavolo da lavoro, diventano ampi; mi piacerebbe “dialogare” con un danzatore. Ma anche disegnare di più, bic su carta. Se potessi scegliere, l’opera di quale autore contemporaneo vorresti illustrare? Thomas Bernhard, vorrei saper rendere quel suo modo di criticare, così ironico e autoironico, incalzante. Mi viene in mente un gioco di negativo/positivo, dove si vede un’immagine che, osservata attentamente, ne rivela altre. Ci fai un autografo? Con la tastiera?
Perché leggere Terry Pratchett di Barbara Fiorio. Per dare il titolo al Laboratorio di Scrittura Ironica che ho tenuto nel novembre 2013 a Officina Letteraria, ho scelto una frase di Terry Pratchett, presa da uno dei suoi ultimi libri tradotti in Italia, Tartarughe divine. Avrei potuto citare Pirandello, Calvino o Flaiano, avrei potuto tuffarmi negli aforismi di Wilde, avrei potuto scomodare Rabelais o persino Shakespeare. Tutti scrittori che hanno fatto dell’ironia, del sarcasmo, dell’umorismo sottile, ma anche della comicità, capolavori della letteratura. Il sarcasmo con certe persone è utile quanto lanciare meringhe a un castello E invece ho voluto rendere omaggio, un minuscolo omaggio, a un autore tra i più conosciuti nel mondo anglosassone, tradotto in 37 lingue, in milioni di copie. Di premi, riconoscimenti e lauree honoris causa ne ha piene le mensole, grazie ai quaranta libri che ha pubblicato negli ultimi trent’anni. Eppure, solo la metà è stata tradotta in Italia. Potrei parlarvi almeno di questi venti, direte voi, o almeno di uno di questi venti, ma prima vorrei spiegarvi perché secondo me Terry Pratchett lascerà un’impronta indelebile nella letteratura del nostro tempo (di che forma sia poi quell’impronta, ha poca importanza). Fa ridere alle lacrime. Fa ridere. Certo, fa ridere. Fa ridere alle lacrime, fa ridere in modo intelligente, colto, sottile. E fa sentire intelligenti mentre si ride, fa sentire adulti anche se si parteggia per un troll. Incanta con il suo sarcasmo, con la raffinatezza delle metafore, con l’eleganza nel toccare qualsiasi tema, dalla politica alla religione, dalla filosofia alla superstizione, dal sesso alla magia, dalla storia alla morte. Conquista con la sua genialità, con i giochi di parole e perché non è mai scontato. Lui soffia sulla mediocrità umana e la eleva fino a renderla commovente, se gli va. Fa il giocoliere con i dubbi e le paure, con i meccanismi della gente comune e con le astuzie di chi governa il mondo, e non si pone il problema di raccontare le sue storie in mezzo a draghi, golem o gilde di assassini. Anche Goethe è Fantasy. Chi ha bisogno di definire il genere, lo definisce fantasy. Sarà. Allora sono fantasy anche Goethe, Shakespeare, Dante e Omero. Se avete voglia di scoprirlo, seguite le sue Guardie cittadine su Mondodisco, partendo da A me le guardie!, Uomini d’arme e Piedi d’argilla. Oppure leggete Streghe all’estero, dove tre streghe irresistibili e un gatto sono alle prese con un lieto fine imposto da una fata madrina dittatrice, o Morty l’apprendista, dove la Morte – che parla rigorosamente MAIUSCOLO – cerca un apprendista per andare in vacanza tra gli umani, o Il tristo mietitore, dove la Morte viene licenziata (e noi tifiamo per lei). Ma se volete uscire da Mondodisco, fate amicizia con Il piccolo popolo dei grandi magazzini, dove i Niomi (sic!) cercano rifugio in un grande magazzino che si rivela essere un mondo a sé, con strutture sociali e religiose ben precise. E se vi incuriosisce vedere come se la cava Terry Pratchett insieme a un altro grande autore come Neil Gaiman, be’, non mi resta che augurare: Buona Apocalisse a tutti.
Dedico alle donne, in questa giornata, la riflessione di un uomo, grande scrittore, Giuseppe Pontiggia, tratta dal suo libro “Prima persona” (Mondadori, 2002). Vi si parla in particolare di stupro, della sua infamia, ma vale per ogni violenza. Laura Bosio Ideologia e pratica dello stupro Giuseppe Pontiggia Per frenare l’aumento di diffusione, se non di popolarità, di questa infamia del maschio umano, forse occorrerebbe sottolinearne l’abiezione che manifesta, l’inferiorità che cela, la sconfitta che esprime. Se c’è un gesto in cui l’uomo annienta nel loro contrario tutte le qualità di cui si è tradizionalmente fatto vanto è proprio la violenza immotivata e impunita contro una innocente indifesa. Forse occorrerebbe insistere sulla viltà dello stupratore, simmetrica alla connivenza inconfessata di certi giudici che erogano pene miti, anziché condanne durissime. Perché tanto riguardo? L’indulgenza, in alcuni casi, è criminale come lo sfregio inferto per sempre alla persona. Bisognerebbe togliere al gesto ogni alibi psicologico che pure, in modi trasversali, evidentemente sussiste. L’indulgenza, in alcuni casi, è criminale come lo sfregio inferto per sempre alla persona. Bisognerebbe togliere al gesto ogni alibi psicologico che pure, in modi trasversali, evidentemente sussiste. Io credo non tanto alla efficacia dello sdegno, che spesso si compiace di sé, quanto a un movimento di idee cui tutti – dalla scuola alla chiesa, dalla stampa allo spettacolo – diano un contributo per coprire di disprezzo lo stupro. E i comici potrebbero coprire di ridicolo chi vede in quell’atto una affermazione di sé. Sappiamo che l’appello etico viene talora degradato a moralistico per poterlo ignorare. Ma lo scherno e l’irrisione hanno radici più profonde nella psiche. Contro l’ingiuria si può combattere, ma contro il disprezzo e il ridicolo no. Causano ferite che non si cicatrizzano. È su questa nevralgia della interiorità che occorre agire. Essenziale è negare allo stupro quella complicità occulta che ancora suscita presso molti uomini e restituirlo alla sua natura miserabile.
“La porta” di Barbara Fiorio. L’urlo di suo marito, una fitta al torace, il freddo del marmo e quel denso bisogno di lasciarsi scivolare nel buio della perdita dei sensi. Poi il pianto di suo figlio lì, sul pianerottolo, e la forza sufficiente per alzarsi e sorridere a quei cinque anni a piedi nudi, con gli anatroccoli sul pigiama azzurro e il viso di lacrime e muco. Inghiottì il sapore del pugno, recuperando il fiato per confortare il bambino. Andava tutto bene, gli sussurrò abbracciandolo, stringendo gli occhi per contenere il dolore. Papà era solo nervoso, e lei non sarebbe andata via. Lo aveva detto ma non lo pensava davvero. Andava tutto bene. Il vicino richiuse la porta.
“Debole” di Sara Rattaro. Il debole sei tu. Lo sei mentre mi tratti male, mentre usi la tua unica lingua, la violenza, mentre credi che la mia paura sia la tua più intima alleata. Lo sei mentre fai finta di nulla quando siamo tra gli amici o quando cambi canale alla televisione se si parla di qualcuno che potremmo essere noi. Lo sei quando mi minacci di non fiatare e mi colpisci solo dove non si può vedere, lo sei mentre sfuggi agli sguardi dei nostri figli e ti chiedi perché mai loro ti stiano così lontani o mentre cerchi di allontanarmi da chiunque credi mi possa aiutare. Ma lo diventi soprattutto quando credi che ciò che fai sia giusto e che se non me ne vado è solo perché tu sei più importante di tutto. Ma lo diventi soprattutto quando credi che ciò che fai sia giusto e che se non me ne vado è solo perché tu sei più importante di tutto. Non è così, lo faccio solo perché ho paura che qualcun altro possa pagare la tua ira, tutta la tua fragilità perché il debole sei tu. Io ho visto l’inferno e ora non c’è nulla che mi possa fermare, nulla davanti al quale io mi senta di dover abbassare lo sguardo. Per questo motivo tutti sapranno che il debole sei solo tu.
Sulla condanna alla violenza contro la donna: una riflessione di Elena Mearini. Ormai, venire a conoscenza dei molteplici atti di violenza inflitti alle donne, non è più sufficiente, e dovrebbe non esserlo mai stato. Occorre assumere in sé tutto il non senso di un’ingiustizia che ancora trova uno spunto per esistere. Occorre farsi personalmente carico di una piaga che va definitivamente debellata, una piaga opposta e contraria al segno di sacrificio e santità. Una piaga d’intollerabile dolore e inammissibile follia. In quanto donna, mi trovo invasa da una volontà feroce di scendere per le strade e gridare un Viva a tutto il femminile che marca il mondo. Bisogna unirsi in uno sforzo corale capace di spaccare i vetri della paura. Uno squarciagola così potente da perforare tutte quelle sordità che portano all’indifferenza. Fuori le voci, dunque. Bisogna unirsi in uno sforzo corale capace di spaccare i vetri della paura Perché il silenzio non è altro che consenso alla mano dell’ennesimo uomo che colpisce l’ennesima donna. Pene più severe, Arresto per stalking, Vittima informata sull’iter giudiziario, Querela irrevocabile, Aggravanti per coniuge e compagno anche non conviventi. Questi, alcuni dei punti chiave della nuova legge contro il femminicidio e la violenza di genere. A leggerli, viene da chiedersi il perché non siano stati considerati ed applicati fino ad ora. A leggerli, nasce indignazione e sconforto di fronte a una giustizia colpevole di un ritardo che non ammette giustifica. A leggerli, dobbiamo indignarci di fronte ai Meno male, Era ora, Finalmente. Indignarci affinché in ognuno di noi sorga irrinunciabile la domanda “Dove siamo stati fino a questo momento?”. La società (ossia il Noi che dovremmo essere) non può più permettersi di stare sempre un poco più in là di una vita maltrattata.
“Limite” di Emilia Marasco. Una parola per una giornata: LIMITE. Limite, confine, barriera. Limite insuperabile, invalicabile, punto oltre il quale non… Il limite alla violenza fisica e psicologica. È ancora necessario interiorizzarlo, ridefinirlo, ricordarlo, spiegarlo, imporlo, perciò la giornata internazionale di lotta alla violenza alle donne, è una giornata simbolo e un promemoria collettivo per questo impegno. Le parole spesso assumono accezioni diverse, si impastano con aggettivi, si modificano secondo il contesto e il punto di vista, il positivo diventa negativo. Il limite è anche la discriminazione, il silenzio, il limite è la paura Il LIMITE è anche la discriminazione, il silenzio, il limite è la paura, il limite è la parete tra noi e il dramma della nostra vicina di casa, il velo di cataratta che ci impedisce di riconoscere segni inequivocabili su un viso o su un corpo, il limite è la sordità che ci impedisce di distinguere un grido d’aiuto. Il limite è la domanda che non facciamo, è il gesto che tratteniamo. La giornata di lotta alla violenza alle donne è anche un momento per ricordare che c’è un limite invalicabile per il quale dobbiamo esigere rispetto, e c’è un limite ambiguo e insidioso che tutti dobbiamo essere in grado di superare con coraggio.
Recensione di Sara Boero. Mettiamo che io voglia convincervi che non esistono barriere tra la letteratura per ragazzi e quella per adulti. Volete davvero che vi consigli Alice nel paese delle meraviglie o Il mago di Oz? O preferireste offrirvi come sacrificio umano piuttosto che scoppiarvi due classici triturati e sminuzzati da TV, cinema, topolini e merchandising per tutto il ventesimo e ventunesimo secolo? Vi capisco, credetemi. E vi capisce anche Neil Gaiman, il più famoso autore contemporaneo tra quei pochi paladini della libertà artistica che lottano per abbattere ogni muro tra generi, mezzi di comunicazione e linguaggi. Un libro straordinario. Nessun dove è un libro straordinario, pirotecnico, in cui l’universo fantastico e l’immaginario infantile sono perfettamente calati in un mondo urbano, crudo e adulto. Non aspettatevi pasticci per signorine alla Twilight: qui gli incubi sono incubi veri, le leggende prendono vita e i sogni diventano reali nel modo più intrigante (e disturbante) possibile. L’ho consigliato l’anno scorso ai Laboratori di lettura di Officina Letteraria. Perché lo consiglio a un lettore: Perché è un bel libro. Primo. Perché è un racconto di formazione, se vogliamo “al contrario”, che ci fa intraprendere un viaggio nel tempo per tornare bambini pur restando adulti. Il protagonista, un ragazzo di provincia trasferitosi a Londra, si trova costretto a calarsi nella Londra di sotto. Una città sotto la città, in cui l’impossibile è all’ordine del giorno e gli angeli vivono con le creature mitologiche, i mendicanti, i guerrieri e i re delle carrozze di treni della metropolitana in disuso. Il confronto con il buio, con i nostri peggiori incubi e con la paura è uno dei temi più toccati da Neil Gaiman in tutta la sua produzione: ricordate Coraline e i suoi mostri con bottoni al posto degli occhi? Se sì, siete preparati al peggio. E soprattutto siete pronti ad abbandonarvi a questo straordinario omaggio alla letteratura classica per ragazzi e a riscoprire luoghi della vostra infanzia che forse avevate dimenticato. Vi lancio un nome: Marchese di Carabas. La prima volta che ho letto Nessun dove alla comparsa di questo personaggio sono rimasta con un punto interrogativo in testa. Non mi ricordavo proprio dove lo avessi già sentito. E quando mi è tornato in mente mi sono detestata per essermelo scordato. Perché lo consiglio a uno scrittore: Prima di tutto perché la genesi di questo libro è molto “educativa” per chiunque scriva o voglia scrivere. Nessun dove è uscito in almeno tre versioni successive ed è nato come sceneggiatura televisiva per una serie della BBC. Gaiman non era soddisfatto del risultato sullo schermo e ne ha tratto un romanzo, su cui ha rimesso le mani più volte nel corso degli anni, facendo ristampare e ritradurre il volume in edizioni diverse. Gaiman-non-era-soddisfatto-del-suo-lavoro. Gaiman. Non so se il messaggio è chiaro. Quasi sicuramente se siete soddisfatti della prima stesura di una vostra opera state facendo un errore, perché potrebbe migliorare. Ritornare al lavoro su un libro finito è molto difficile (a volte anche psicologicamente) ma per fortuna ci sono i lettori e gli editor, quell’occhio esterno e fresco che può aiutarvi a capire dove il testo è debole. Non fidarsi di questi pareri, o pensare che la propria Opera Immortale Sia Intoccabile, è una presunzione gravissima che per il bene dei vostri libri non dovete assecondare. Fidatevi degli altri: la scrittura è condivisione, è lavoro prima di tutto individuale ma poi anche collettivo, nel momento stesso in cui qualcuno vi legge. Secondo punto di forza: la struttura del romanzo riprende le funzioni di Propp in maniera fedelissima, da manuale. Leggere “Nessun dove” è un ottimo modo per rinfrescare gli archetipi della fiaba e della narrazione tradizionale, e poterli utilizzare con maggiore scioltezza e cognizione la prossima volta che vi siederete al computer.
La Chinaski Edizioni è una casa editrice indipendente fondata a Genova nel 2004 e lentamente affermatasi come una delle più importanti in Italia nell’ambito della saggistica musicale. In questa intervista a Federico Traversa, direttore editoriale e socio fondatore di Chinaski, si parla di avventure imprenditoriali, percorsi umani, consigli ad aspiranti scrittori, crisi e ricette per uscire dalla crisi. Come nasce Chinaski Edizioni? Il nucleo originario eravamo io e un gruppo di amici: all’epoca facevamo tutti dei lavori pessimi, precari e sottopagati. Io ad esempio lavoravo in una fabbrica: scaricavo delle latte e non avevo idea di dove andassero a finire. Però tutti avevamo un sogno, il sogno di occuparci di letteratura e di far sentire la nostra voce. Io scrivevo: avevo pubblicato un libro per pura fortuna, così mi è venuta la voglia di provare a riunire tutti questi miei amici un po’ disgraziati come me in una realtà solida, di fare qualcosa di diverso. A Genova non c’era molto. Abbiamo tentato e le cose sono arrivate. Per noi è stato tutto magicamente casuale. Io ho scritto un romanzo, questo romanzo è finito nelle mani di Tonino Carotone, tramite Tonino Carotone sono stato in Spagna e ho conosciuto Manu Chao, tramite Manu Chao sono tornato a Genova sono arrivato da Don Gallo, e da lì sono nati libri importanti che hanno permesso alla casa editrice di consolidarsi… è stata una cosa un po’ pionieristica. E fatta a nostro modo. Accennavi ad alcune importanti collaborazioni, come quella con Don Andrea Gallo… Beh, è un po’ difficile parlare di Don Gallo, lui era un gigante… Quando andai da lui la prima volta, proprio mandato da Manu Chao, lui aveva appena pubblicato con Mondadori il libro “Angelicamente anarchico”, che era stato un bestseller. Dopo un po’ che chiacchieravamo io, quasi scherzando, o forse con l’imprudenza della giovane età, gli dissi “dovremmo fare un libro insieme”. E lui mi disse di sì. Non ero assolutamente pronto a questo sì. Però iniziai ad incontrarlo, ad andarlo a trovare, di settimana in settimana, e ad entrare in quella sua umanità senza confini. Un trafficante di sogni a tutto tondo… il frutto di quegli incontri è stato il libro scritto con Andrea, ma anche l’evolversi del progetto Chinaski. Noi siamo un’attività commerciale, che deve vendere libri per campare e pagare gli stipendi, ma dentro abbiamo anche questa voglia di conoscere e camminare con gli altri. Ci sono state altre collaborazioni importanti, con gli Africa Unite ci siamo divertiti, Tonino Carotone è diventato per me un fratello, idem il rapper Vacca, Fabri Fibra, tanta gente. Però Don Gallo… è Don Gallo. In questo momento stiamo vivendo una grande crisi economica mondiale. Quanto viene avvertita nel mondo dell’editoria e che influenza ha? Si sa, tutte le volte che c’è crisi la prima cosa che si va a toccare è la cultura… già così si parte male. Se poi aggiungiamo il fatto che l’Italia è uno dei paesi europei in cui si legge meno il quadro è allarmante. Le grosse catene sono in crisi, le piccole librerie io le chiamo librerie partigiane perché fanno una resistenza incredibile, ma ormai è dura. In Italia tutti scrivono e pochissimi leggono, c’è una situazione disarmante. Però va bene, nessuno ci ha detto che sarebbe stato facile. Io parlo per Chinaski ma anche per tanti amici editori piccoli che conosco… noi sappiamo di essere in trincea e di lottare, e che nessuno di noi si comprerà mai le piscine e le ville, ma neanche ci importa molto. Il fatto però di dare testimonianza di questi tempi, di far sentire le voci interessanti che escono e si alzano oggi è sicuramente di per sé appagante. Detto questo, speriamo che ci mettano una pezza. A proposito delle “voci interessanti” di cui parlavi prima: c’è qualche autore emergente che sei particolarmente orgoglioso di avere pubblicato? In realtà io credo che l’opera sia sempre più importante di chi la crea, fondamentalmente sono orgoglioso di tutti i libri che abbiamo pubblicato. Anche perché mi sono reso conto – ragionando anche sul mondo della musica – che molte volte un musicista ti conquista per un disco ma il successivo è deludente. La stessa cosa per la scrittura o per qualsiasi forma d’arte. Quindi in realtà mi piace pensare all’universo della cultura come a un luogo in cui è sempre più importante l’opera di chi l’ha creata. Anche perché poi, con la mercificazione delle immagini che viviamo oggi, appena qualcuno diventa un “personaggio” viene subito inglobato dal sistema televisivo. Finisce che ti dimentichi perché ci sei arrivato, cioè scrivere libri o fare musica. Ne ho visti troppi ed è un peccato. Ricette, idee per uscire da questa crisi – da un punto di vista editoriale? Dal mio punto di vista non è più una crisi del mondo editoriale, è una crisi di sistema e purtroppo dalla crisi di sistema non si esce tanto facilmente. Bisognerebbe ripartire, per così dire, dall’ABC. Far innamorare di nuovo la gente della letteratura , della buona musica. Far innamorare di nuovo la gente della letteratura , della buona musica. E questo non può andare a braccetto con un rilancio economico immediato.. Una “ripartenza”, se ci sarà, verrà dalle nuove leve, che vanno educate a riscoprire la bellezza e gli insegnamenti che ti può dare un buon lavoro artistico.Andrebbe anche ripensata la filiera editoriale: persistono situazioni veramente insensate. Faccio un esempio: escono valanghe di libri ogni mese. Questo cosa implica? Implica che la libreria è talmente “dopata” da tutte queste uscite che poi è costretta a rendere in tempo zero. Il libro non ha modo di maturare: non c’è neanche il tempo del passaparola, come si faceva una volta. Per il semplice fatto che un libro in libreria – se vendicchia qualcosa – resta che vada bene un paio di mesi. Se parte male quindici giorni e te lo rendono. Addirittura ci sono dei libri che non vengono neanche sballati. Altro problema è la questione che ormai il libraio fa gli ordini in relazione alla popolarità
Recensione di Ester Armanino. La persona che ami è per il 72.8% acqua. Il motto del designer inglese Alan Fletcher coglie l’essenza più intima di “Le onde”. Un libro “che ha il tempo come materia e l’essere come struttura” (Nadia Fusini) ma anche e soprattutto un libro sull’acqua, intesa come componente principale della nostra vita e del nostro pensiero (lo “stream” della coscienza). La vita rappresentata in “Le onde” è lo stato liquido e mutevole dell’esistenza: l’infrangersi del nostro mare interiore contro la durezza della materia solida, delle cose che restano immutate nel mondo. I sei personaggi di “Le onde” si relazionano tra loro e spesso non si comprendono, si amano e si odiano, si separano nel tentativo di scindersi e distinguersi come gocce, però poi inevitabilmente si cercano, hanno bisogno l’uno dell’altro non solo per trovare forma e confini del proprio essere – come l’acqua in un contenitore – ma anche per poter mescolare le proprie vicende di uomo o donna in una soluzione dove il “solvente” è la comune condizione umana, elevata a memoria collettiva. Fingiamo che la vita sia una sostanza solida, a forma di globo, che facciamo girare tra le dita. Fingiamo di poter ricavare una storia semplice e logica, in modo che quando un argomento è liquidato – per esempio l’amore – possiamo passare in buon ordine al prossimo. Così, come in una fotografia dimenticata tra le pagine, si ha l’immagine delle mani di Virginia che intrecciano le storie dei personaggi in una ghirlanda che poi lasciano andare lungo il fiume, in balia della corrente. Uno spazio apparentemente protetto, definibile almeno internamente , dove c’è moltissimo, l’esuberante quantità di stimoli e pensieri e metafore che fanno roteare la ghirlanda in un vortice su se stessa, minacciandola di sciogliersi da un momento all’altro. Tuttavia resta chiara una precisa volontà, qualcosa che passa dalla stelo di un fiore all’altro: non venire meno a quel patto – non di sangue ma d’acqua – stipulato nell’infanzia, e cioè di condividere ogni bene e ogni male della vita nell’amicizia. Perché lo consiglio a un lettore: La lettura di “Le onde” è una specie di travaso di sensazioni, pensieri, emozioni, che mette in contatto la sensibilità del lettore con quella di una delle più grandi autrici del secolo scorso, abbattendo i riferimenti di tempo e spazio, come solo l’arte riesce a fare. È un’esperienza di ciò che siamo e anche di ciò che è l’arte. “Quando scrivo non sono che una sensibilità”, appunta la Woolf nei suoi diari. Questa sensibilità permea da cima a fondo “Le onde”, e si trasforma in capacità di accogliere “la sensazione del canto del mondo reale” per farne letteratura, portando quest’ultima a livelli vertiginosi. Perché lo consiglio a uno scrittore: Per ascoltare la scrittura. Dice la Woolf, sempre nei suoi diari: “io scrivo a ritmo, non a trama”. E Marguerite Yourcenar, in un saggio del 1937, definisce “Le onde” come un “racconto musicale”, un brano per orchestra dove ciascun personaggio è uno strumento, e dove la sinfonia degli allegro dell’infanzia gradualmente cede il posto agli andante lento dell’età adulta fino alla vecchiaia. Penso possa essere molto utile, a chi scrive, tentare questo approccio. Accordarsi a un dettato interiore ed esteriore e cercare un ritmo. Per scrivere (e per vivere), questo ci trasmette Virginia Woolf, dobbiamo assecondare l’incontro-scontro tra due ritmi: quello più grande che ci contiene ed è ciclico, imprevedibile, eterno, e che non può essere cambiato ma solo percepito; quello del nostro sforzo individuale, misurabile e dispendioso, che possiamo scandire in modo personale, scrivendo la nostra parte oppure, per restare nella metafora, suonando il nostro assolo.
Questo racconto breve è estratto dalla raccolta “Senza Amore” che ha inaugurato la collana Academy della casa editrice Emma Books. Le parole tabù che hanno dato origine al testo sono: passione, dolcezza, nostalgia, dolore e, ovviamente, amore. “A brandelli” di Federica Kessisoglu. La prima volta che lui la notò era seduto sui gradini della chiesa di fronte al supermercato COOP di via Lazio. Aveva appena finito di controllare i suoi sacchetti, soprattutto quello blu dell’IKEA dove teneva gli oggetti più ingombranti, fragili e preziosi. Un’asse di legno che aveva trovato appoggiata al cassonetto di corso Garibaldi, la statuina in porcellana del pagliaccio che era appartenuta a sua madre, una coperta di lana che gli avevano dato al dormitorio e che non aveva restituito. La borsa blu dell’IKEA era di gran lunga la più resistente tra tutte quelle che aveva avuto, doveva stare molto attento che non gliela rubassero. Era una mattina di fine febbraio e si stava godendo il tepore di un sole pallido e nuovo. Lei era là, in piedi, dall’altra parte della strada, che guardava alternativamente a destra e poi l’orologio. Stava aspettando un autobus con una busta della spesa stretta in una mano e la borsa a tracolla. Fu un particolare preciso che attirò la sua attenzione. Le dita sottili di un vento leggero le avevano sciolto la sciarpa di seta scoprendole il collo bianco e lungo Le dita sottili di un vento leggero le avevano sciolto la sciarpa di seta scoprendole il collo bianco e lungo: una calla, la calla bianca che strappò dal giardino dei vicini per portarla in dono a sua madre. La mamma lo rimproverò e lo punì. Pianse per ore senza capire la sua colpa. La prima volta che lei lo notò era seduta sulla panca di pietra del binario tre in attesa del treno. Quella mattina di marzo era fredda e soffocava una promessa di nuvole blu. Lo vide passare ricoperto di roba: uno zaino unto e sdrucito dal colore indefinibile appoggiato alla spalla destra, un grosso sacchetto blu dell’IKEA su quella sinistra, un altro sacco di tela stretto in una mano e una sporta di plastica mezza rotta legata allo zaino. Si rese conto di averlo fissato troppo a lungo e distolse lo sguardo. L’uomo si sedette all’estremità opposta della sua panca di pietra. Sistemò le sue cose con cura e attenzione di fronte a sé. Continuava a seguirlo con la coda dell’occhio e fu la lentezza studiata dei suoi movimenti ad attirare la sua attenzione. Le ricordò un maestro di Tai Chi. Si girò del tutto nella sua direzione quando lo scorse estrarre un piccolo libro dallo zaino. Il titolo era troppo lontano e, per quanto si sforzasse, non riusciva a distinguere le lettere. L’altoparlante della stazione annunciò il suo treno: il Regionale 342 per… Scattò in piedi anche se mancavano ancora una manciata di minuti prima del suo arrivo. L’uomo rimase seduto e continuò a leggere, gli occhi affondati nelle pagine. D’improvviso sollevò la testa e i loro sguardi si scontrarono. Trasalirono entrambi: la calla e il maestro di Tai Chi. «Le notti bianche di Dostoevskij» disse piano sollevando il libro. «Mi scusi?» «Credo che questa sia la mia cinquantesima ripassata.» Il treno arrivò in quel momento e si intromise di prepotenza. Vi salirono entrambi. Lei lo precedeva e scelse un posto libero accanto al finestrino. I suoi sacchetti occuparono tutte le altre sedute, tranne una dove si accomodò timido di fronte a lei. Aveva l’urgenza di finire una frase e iniziarne un’altra e ancora e ancora. Una signora con cappello maculato e soprabito coordinato gettava loro occhiate oblique. Le raccontò di Dostoevskij e delle Notti bianche, di come la bellezza lo tenesse fuori dai guai, di come il passato lo tormentasse e di come il presente fosse una distesa di acqua profonda e oscura. Lei lo ascoltava stupita, vedeva le sue mani sottolineare le parole, gli occhi chiari sempre alla rincorsa di immagini, la barba incolta e i capelli schiacciati dal berretto di lana blu, che si era tolto poco dopo essersi seduto di fronte a lei. Lei ricambiò parole e gesti. Raccontò della sua vita un po’ solitaria come quella dell’albero spoglio nel cortile. Il passato era prossimo e non la toccava, il futuro un punto di domanda sulla porta di casa. Il treno attraversò tunnel oscuri, luci sottili sui binari, mattoni di fuliggine, nero riflesso sui vetri. All’improvviso cielo e nuvole resero tutto più leggero. Si separarono con calma e sorrisi. All’improvviso cielo e nuvole resero tutto più leggero. Si separarono con calma e sorrisi. La prima volta che lui pensò a lei era una giornata bianca e silenziosa. La temperatura a zero gradi e la neve che cadeva leggera. Quella leggerezza si era fatta pesante quando aveva dovuto raggiungere i gradini della chiesa di fronte al supermercato. Con le mani gelide aveva spazzato via il soffice manto bianco per far posto a sé e alla sua casa racchiusa in zaino e sacchetti. La prima volta che lei pensò a lui si trovava in piedi di fronte alla finestra e fissava un cristallo sciogliersi sul vetro. «Starà bene?» Questo pensiero le sfuggì e arrivò dritto alla bocca dello stomaco. Afferrò la borsa e uscì. Lo trovò lì, lo sguardo perso in mezzo ai fiocchi che gli tingevano barba e berretto. Accanto a lui montagnole di neve nascondevano il suo privato. «Vieni con me? Ti offro un posto caldo dove poter leggere.» Sollevò la testa, la vide, poi si alzò. Si sistemò lo zaino sulla spalla e frugò in mezzo alla neve per afferrare i manici degli altri sacchetti. La seguì in silenzio. Si fermarono di fronte a un portone verde con due pomelli di ottone. Lei faticò un poco a trovare la serratura e a girare la chiave. Lui lo capì. La sua casa lo sorprese: era tutta colorata. Pareti, oggetti, tappeti, mobili. Lui la sognava spesso in bianco e nero. Lo fece accomodare su un divano di stoffa rossa con cuscini verde prato. «Ti
Un bravo scrittore deve scrivere tutti i giorni? Se sì, quante ore bisogna scrivere al giorno? Alzi la mano chi non si è mai posto questa domanda. Proviamo però con questa, più difficile: quante parole bisogna scrivere al giorno? Una cartella sono 1.800 battute, fate voi i conti in base al tempo, alle energie e all’ispirazione che quotidianamente potete dedicare. C’è chi ha trasformato la costanza nella scrittura in un gioco, forse un po’ sadico ma interessante: nel 1999 una ventina di scrittori californiani si sono radunati a San Francisco e si sono impegnati a scrivere, ciascuno, 50.000 parole in un mese. Calcolatrice alla mano, tenendo a mente i pochi dati numerici a disposizione e il fatto che (come ci insegna la filastrocca) 30 giorni ha novembre, significa una media di 1.667 parole al giorno. Da qui è nato NaNoWriMo, acronimo di National Novel Writing Month. Ogni anno, a novembre, scrittori di tutto il mondo si cimentano in questa sfida. Scrivere in un mese una storia di almeno 50.000 parole. Un giorno, un amico trova James Joyce riverso sullo scrittoio, in atteggiamento di profonda disperazione: «James, che cosa c’è che non va? È il lavoro?» James asserì, senza nemmeno alzare la testa. «Quante parole hai scritto oggi?» «Sette» «Sette? Ma James… è ottimo, almeno per te!» «Suppongo di sì, ma non so in che ordine vanno.» Il tema e il genere sono liberi, l’unico requisito è appunto la lunghezza. Chiunque può partecipare: basta iscriversi al sito web di NaNoWriMo e caricare man mano il proprio lavoro su un apposito spazio, che automaticamente produce il conto alla rovescia verso l’obiettivo delle 50.000 parole. NaNoWriMo è l’esperimento ideale per chi ha un romanzo in testa – o comunque un’idea narrativa di un certo spessore – ma per un motivo o l’altro ha sempre rimandato l’inizio della scrittura vera e propria. Ogni anno partecipano circa 200.000 persone, per un totale (dato riferito al 2010) di 2.872.682.109 parole scritte in un mese. L’obiettivo è ambizioso e non c’è tempo per fermarsi a valutare dove mettere la virgola, se quella parola lì è giusta o se la trama regge. Per la qualità della storia ci sarà tempo. Lo scopo di NaNoWriMo è dare valore alla scrittura di pancia, di getto. Non si vince niente, a parte una considerevole dose si soddisfazione personale: chi supera la sfida arriva alle 23:59 del 30 novembre con un romanzo fatto e finito, da revisionare prima di tentare la fortuna della pubblicazione. Dal 2006 a oggi, oltre 100 romanzi NaNoWriMo sono stati pubblicati da case editrici in vari Paesi. Chissà se Bukowski, Roth, Borges e così via ci arrivavano, a scrivere 1.667 parole al giorno.
In questo breve post, Federica Pontremoli svela lo spirito con cui intende condurre Scrivere un corto, il laboratorio sul cortometraggio in partenza il 16 novembre 2013. Piccolo film, grande impresa. di Federica Pontremoli Un cortometraggio è un piccolo film. Ma piccolo non significa facile, anzi. Fare un piccolo film è una grande impresa! E allora partiamo dalle fondamenta dell’impresa: la scrittura. Prenderemo una storia: una storia che avete dentro e che avreste sempre voluto raccontare, una storia che avete sentito da un amico e pensate che sia una buona idea per un film, una storia rubata dai racconti di nonni, zie, figli e nipoti. Oppure una storia che, semplicemente, vi siete inventati. Insieme faremo un percorso per costruire al meglio la struttura di questa storia, scegliere il miglior punto di vista, descrivere i personaggi e creare un copione che possa diventare un grande piccolo film di dieci minuti. Vedremo film lunghi e corti da cui impareremo a riconoscere la buona scrittura al di là delle immagini, inizieremo a scrivere poche righe per distinguere una buona idea da una meno buona. Poi scriveremo sempre più pagine per definire i nostri personaggi, poi scriveremo ancora più pagine per trovare un buon inizio, un buon finale… fino a quando avremo le migliori dieci pagine di sceneggiatura che mai avremmo potuto immaginare di scrivere. Dimentichiamo le definizioni di scuola, corso, seminario, laboratorio… Il nostro sarà un viaggio nel mondo delle idee in cui la scrittura sarà l’ultimo passo di un processo largo, creativo divertente e intelligente. Vai al laboratorio “Scrivere un corto”