Guest post di Elisa Tonani, Maestra di Officina Si usa a volte, tra le tante locuzioni cristallizzate che quotidianamente accompagnano il nostro eloquio, il sintagma “felicità espressiva”. La felicità data dalla bellezza della lingua, dal trovarsi di fronte a un concetto ben formulato. Felicità non solo di chi legge (e può rinvenire, nel discorso di un altro, sé stesso, qualcosa che lo identifica, in cui può riconoscersi), ma anche di chi scrive (di chi sente maturare in sé e sgorgare fuori di sé – già altre, non più sue – le parole giuste, insostituibili, quelle che definiscono la cosa in modo perfetto). È la ricerca di questa seconda felicità che fa accostare a un percorso di scrittura creativa, è questa la sete che chi scrive cerca di placare nella lettura per poi suscitarne altra tramite l’atto di scrivere. C’è una bellezza nella sfida che ci presenta una materia che ci sfugge eppure ci appartiene, che ci appartiene eppure ci sfugge: la lingua che parliamo, la punteggiatura che usiamo… cose nostre eppure così inclini a scivolare via… Siamo perlopiù abituati a considerare la punteggiatura una costrizione imposta dal di fuori e di cui non si sono mai ben capite le regole; oppure un sistema troppo lasco che sfugge da tutte le parti e di cui è impossibile tenere le fila. O al contrario qualcosa da spargere a caso nel testo, appellandosi al suo valore soggettivo! Ma lo stile è personale, non arbitrario. A volte basta cambiare prospettiva, basta illuminare di una luce diversa, per capire le cose che ci stanno davanti da sempre, che si danno un po’ per scontate, che si considerano addirittura irrilevanti. A volte basta cambiare prospettiva, basta illuminare di una luce diversa, per capire le cose che ci stanno davanti da sempre, che si danno un po’ per scontate, che si considerano addirittura irrilevanti. In un luogo come Officina Letteraria – l’ho sperimentato personalmente – succede qualcosa del genere: entrano in crisi le abitudini consolidate, ci si lascia alle spalle un po’ del bagaglio di certezze che ormai diamo per scontate, ed entra in gioco altro: la creatività, l’immaginazione, l’esplorazione, la possibilità di sperimentare e condividere percorsi nuovi. Un giorno arrivo a Officina letteraria per insegnare (la punteggiatura, questa Cenerentola che vorrei accompagnare fuori dalle grammatiche e dentro alle storie, come in una fiaba), e per prima cosa imparo. Il processo è avviato, e non si arresta: come potrebbe essere altrimenti se lo spirito che anima tutto è quello di Emilia Marasco? Un giorno, una “maestra” di Officina, una scrittrice curiosa e appassionata, mi ascolta, riflette, si confida, mi dice che si sta abituando a pensare anche agli aspetti della grammatica delle storie e della lingua come a dei personaggi che vivono, agiscono, interagiscono con noi; e poi mi coinvolge sulla sua pagina Facebook con domande che sembrano un gioco: “Che cosa mangiano le parentesi? in che stagione si riproducono le virgole? e che cos’è la punteggiatura bianca?”. Dietro questo gioco c’è tutta l’intelligenza arguta e la felicità inventiva di Ester Armanino. Nell’inevitabile torpore in cui, dopo ormai dieci anni di dedizione, giacciono le mie competenze sulla punteggiatura, si accende qualcosa di nuovo, come una piccola scintilla che ne innesca altre, di cui si intravede la potenziale inarrestabilità. A pensarci bene, possiamo immaginare la struttura del discorso come un organismo vivente, naturale A pensarci bene, possiamo immaginare la struttura del discorso come un organismo vivente, naturale, e i segni di punteggiatura, con le loro funzioni caratteristiche, come elementi strutturali di quel mondo vegetale, segni di una foresta. Ecco allora che le parentesi mangiano l’edera che si arrampica (e che se esagera è un parassita mica da poco!) sul tronco del discorso. Le parentesi fagocitano dentro di sé ciò che, se diventa troppo debordante, rischia di cancellare ciò a cui si sostiene, come l’edera tende a soffocare il tronco degli alberi ricoprendolo in modo indiscriminato. Le virgole si riproducono in primavera insieme alle gemme e ai germogli; anzi, sono esse stesse piccoli germogli che permettono al discorso di espandersi. Ma se in autunno il contadino non pota i suoi alberi, questi ramificano troppo. E allora anche le virgole restano lì appese a prolificare. Ma troppi rami non indeboliranno l’albero? Anche in questo caso ci vuole moderazione! Esagerare significa far seccare la pianta: è opportuno potarla. Il punto è la cesoia, la tronchesi del discorso. Bisogna tagliare nei punti giusti, tagliare dove si può, non in corrispondenza dei punti nevralgici della pianta, altrimenti le si impedisce di svilupparsi nel modo giusto. Si può pure voler coltivare un bonsai, ma anche in questo caso non si potranno separare le radici dal tronco, non si potrà recidere ciò che è indivisibile. La punteggiatura bianca, la più enigmatica e affascinante, è una nebbia. Quando ci sei immerso ti sembra il nulla. Ti sembra che abbia cancellato tutte le cose familiari e note. Ma dietro e dentro di lei c’è ancora tutto. Solo che ora per vederlo servono creatività, immaginazione, intuizione… riuscite a vedere l’invisibile?
Mi piace immaginare un percorso nella punteggiatura come l’attraversamento di un territorio misterioso e seducente, ma a tratti impervio e sdrucciolevole, in cui addentrarsi con curiosità e cautela, come ci si addentra in un bosco. La figura della «foresta di segni» o «di simboli» – in cui risuonano echi di suggestioni baudelairiane («forêts de symboles» della famosa poesia-manifesto Correspondences) – si presta, per la sua potenza evocativa, a suggerire per via metaforica lo spazio della scrittura, fatta non solo di lettere (grafemi) ma anche di elementi che stanno “presso” (in greco parà) i grafemi (segni para-grafematici, più noti come segni di punteggiatura) per sostenerli (puntellarli) e per metterli in comunicazione tra loro (avvicinandoli e separandoli al tempo stesso). Ma anche per gettare sul testo in cui si inseriscono una luce dal fascino particolare. I segni di punteggiatura sono come il tracciato che segnala, scandisce, ritma un territorio altrimenti impenetrabile, inaccessibile, senza confini. Le indicazioni di sentiero nel bosco e i segni di punteggiatura nel linguaggio sono modi per rendere “abitabile”, percorribile, ciò che per eccellenza ci sfugge (la natura, il linguaggio). Tutto qua? Allora sono segni che scattano in automatico e che sono validi una volta per tutte? No. Non sono meccanici e fissi come passaggi a livello. I modi per “abitare” lo spazio sono potenzialmente infiniti e riflettono il nostro stile. Dipende da noi investirlo di creatività e bellezza. Esattamente come succede per la lingua, e per la scrittura (letteraria e non). Nessuno parla o scrive in modo identico a un altro. Sfuggire all’omologazione e conquistare spazi sempre maggiori di libertà, di creatività, di bellezza espressiva, dipende anche dal modo in cui sappiamo usare (dosare, calibrare, piegare duttilmente) la punteggiatura. La punteggiatura è lo stile, anzi la quintessenza dello stile, e quindi un tratto personale, identificativo dell’uomo stesso, come scriveva la scrittrice George Sand: «On a dit “le style, c’est l’homme”. La ponctuation est encore plus l’homme que le style». La punteggiatura rappresenta l’uomo più ancora di quanto non lo faccia lo stile. Dobbiamo abituarci a considerare i segni di punteggiatura come nostri alleati nella scrittura, capaci di attivare la musicalità della lingua: «spiriti amici della cui presenza incorporale si nutre il corpo della lingua» (per usare la felice espressione di un filosofo che è stato, non a caso, un grande musicologo, Theodor W. Adorno). Guest post di Elisa Tonani, Maestra di Officina