30 settembre 1942

Essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamente.

Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare.

Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori.

E dovunque si é, esserci “al cento per cento”. Il mio “fare” consisterà nell’ “essere” ! Soprattutto, devo essere più fedele a quel che vorrei chiamare il mio talento creativo, per modesto che sia. Ad ogni modo: ci sono tante cose che vorrebbero essere dette e scritte da me, e dovrei mettermici. Invece cerco in tutti i modi di scappare, e in questo manco. D’altra parte, so che devo aspettare con pazienza che le mie parole crescano. Ma devo anche aiutarle. È sempre così: si vorrebbe scrivere subito qualcosa di straordinario e di geniale, ci si vergogna delle proprie sciocchezze. Ma se io ho un dovere nella vita, in questo tempo, in questo stadio della mia vita, é proprio quello di scrivere, annotare, conservare. Le cose, nel frattempo, le digerirò comunque. Io leggo la vita come un tutto coerente, so che sono in grado di leggerla, e nella mia presunzione e pigrizia giovanili penso che tanto mi ricorderò ogni cosa, e che più tardi saprò raccontarla. Io vivo la vita sino in fondo, ma sento sempre più che ho delle responsabilità verso quelli che vorrei chiamare i miei talenti. Ma da dove cominciare, mio Dio. Ci sono così tante cose. Non devi neppure pretendere di scrivere le cose così come le hai vissute con tanta intensità: sarebbe un errore. Non si tratta di questo. Non so ancora come farò a dominare tutta questa materia. So soltanto che dovrò fare tutto da sola, e che ho abbastanza forza e pazienza per riuscirci. Devo anche essere fedele, non posso più disperdermi come sabbia al vento. Io mi divido tra gli affetti, le impressioni, le persone e le emozioni che mi toccano: devo rimaner fedele a tutti ma devo anche essere fedele al mio talento. “Vivere” tutto quanto non è più sufficiente, ci vuole qualcosa in più.

Credo di vedere sempre meglio gli abissi che inghiottono le forze creative e la gioia di vivere dell’uomo. Sono buche che ingoiano tutto e queste buche sono nella nostra stessa anima. A ciascun giorno basta la sua pena. Inoltre: L’uomo soffre soprattutto per la paura del dolore. Ed è la materia che attira tutto lo spirito a sé e non viceversa. “Vivi troppo con lo spirito”. E perché no? Perché non ho abbandonato immediatamente il mio corpo alle tue mani desiderose? L’uomo è una strana creatura. Quanto vorrei scrivere. Da qualche parte in me c’è un officina in cui dei titani riforgiano il mondo. Una volta avevo scritto disperata: é proprio nella mia testolina, nel mio cranio che deve essere spiegato il mondo. Ora lo penso ancora di tanto in tanto, con una presunzione quasi diabolica. Riesco sempre più ad affrancare la mia forza creativa dalle necessità materiali, dal pensiero della fame, del freddo e dei pericoli. È pur sempre un’idea , non una realtà. La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sé, con tutto il suo dolore e con tutte le sue difficoltà, e intanto che la si sopporta, la nostra pazienza aumenta. Ma l’idea del dolore – non il dolore ‘vero’, che è fruttuoso e può rendere la vita preziosa – , quella va distrutta. E se si distruggono i preconcetti che imprigionano la vita come inferriate, allora si libera la vera vita e la vera forza sono in noi, e allora si avrà anche la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella dell’umanità.

Quando soffro per gli uomini indifesi, non soffro forse il lato indifeso di me stessa?

Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini. Perché no? Erano così affamati, e da tanto tempo. E finisco sempre per tornare a Rilke. È così strano, Rilke era un uomo fragile e ha scritto gran parte della sua opera fra le sue mura di castelli ospitali, e magari sarebbe stato distrutto dalle circostanze in cui ci troviamo a vivere noi. Ma non è proprio questo un segno di buona economia – il fatto che, in circostanze tranquille e favorevoli, artisti sensibili possano cercare indisturbati la forma più giusta e più bella per le loro intuizioni più profondi; e che poi, in tempi più agitati e debilitanti, queste stesse forme possano offrirti appoggio e protezione agli uomini smarriti? Ai turbamenti e ai problemi che non trovano o soluzione, perché ogni energia è consumata dalle necessità quotidiane? In tempi difficili si tende a disprezzare le acquisizioni spirituali di artisti vissuti in epoche cosiddette più facili (ma essere artista non è di per sé abbastanza difficile?) , e si dice: tanto, cosa ce ne facciamo?

È un atteggiamento comprensibile, ma miope. E rende infinitamente poveri.

Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.

Queste parole sono tratte dal diario di Etty Hillesum, un giovane donna, ebrea olandese, che avrebbe fatto la scrittrice se non fosse morta il 30 novembre 1943 nel campo di sterminio di Auschwitz.

In questo giorno, dedicato alla memoria,  resto muta e con il cuore dolente per tutti i libri che non sono mai stati scritti, per tutta la musica che non è stata suonata, per tutte quelle vite che avrebbero potuto essere e non sono state. E anche per tutti noi, vivi, ma più poveri, depredati di qualcosa che possiamo solo immaginare.

Cosa sarei io se Etty avesse scritto i suoi libri?

Che ne sarebbe stato di me se Primo Levi non fosse tornato per scriverli?

I diari e le lettere di Etty Hillesum sono editi da Adelphi.

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