Un calcio alla porta e sono dentro.

La guardia con un occhio blu e l’altro grigio grida: “hey tu, invertito, in piedi!”.
“Si, signore”, risponde Hans, con quella sua vocina sottile da topolino.
“Qui! In ginocchio!”.
“Si, signore”, il topolino si mette giù, in ginocchio, con la testa tra le mani.

Eldorado

di Michela Armenia

Il trucco, è non reagire,
recitare una parte.
E io sono bravo a recitare,
Sei nato per questo mi diceva mia madre. Meine Liebe.
E’ semplice.
Io faccio la valigia e pouff, me ne vado.

E mi infilo, piccino come sono diventato, in quella fessura nell’asse di legno che ho un palmo sopra la faccia.
Proprio lì, sotto le ossa del bacino di Otto.
Prima il polso, poi il braccio e la spalla, poi l’altro polso, l’altro braccio e l’altra spalla, e poi qualcuno da sotto mi spinge su, sotto i piedi, e appoggio le mani su travi di abete ruvido.

Abbasso anche io la testa, e annuso questo palcoscenico
e mi alzo in piedi sui miei tacchi di vernice, neri.
Sistemo le calze, velatissime, l’abito è quello di raso, rosso, con lo spacco, profondo.
I pendenti di brillanti e il decolletè, liscio.
Le perle dorate.
Sono pronta.
C’è il mio pubblico, qui, all’Eldorado.
Il giovedì è la mia serata, la serata di Evah.

Ho messo un velo di cipria sotto il rossetto, me lo ha consigliato Constance, così non sbava, nel caso ti sudassero i baffi sotto le luci forti della scena.

Constance, l’unica puttana ebrea di cui ti potevi fidare.

Piccolo angelo, c’eri anche tu su quel vagone.
Stella gialla a te, triangolo rosa,
a me.
A me, che nemmeno piace il rosa.
Non ha passione.
Rosso doveva essere.
Rosso, come l’inferno.
Come questo vestito di raso che scivola sulle mie gambe e odora di tabacco e di rum.

La parrucca è quella nera, ondulata.

Sono pronta, tra il pubblico ci sono tutti quanti,
ancora una sniffata di cocaina.

Sapessi, Guardia, come fa star bene un po’ di coca, una sigaretta e un bicchiere di vino rosso.

Mi aiuterebbe,
sai,
Guardia,
quando ti chiedo una porzione in più di sardine e tu mi spingi la faccia contro il tuo grosso cazzo ariano, non sai quanto mi aiuterebbe un po’ di coca, una sigaretta e un buon bicchiere.

Inizio a cantare,

ieri si è esibita Marlene, l’Angelo Azzurro, Dietrich
su questo
stesso
palco
e adesso tocca a me, ho cancellato le mie sopracciglia, con la cipria, e le ho ridisegnate sottili, due sorrisi sottili, all’ingiù, proprio come le sue.
Ma il boa di struzzo no, io no, io sono Eva e voglio che mi vedano per bene, la mia faccia, la mia bella faccia tutta intera, con i miei zigomi forti e gli occhi allungati.
Le
mie
gambe.
E la mia
voce.

Inizio la mia canzone.

Ridi, Guardia?
Ridi della mia testa rasata da un barbiere distratto? dei miei capelli castani e lucidi lì per terra, sopra mucchi di capelli di criminali, pazzi, di comunisti, ebrei e zingari?
Ridi dei miei denti che sembrano così grandi e gialli tra queste labbra cotte dal sole e dalla neve, tagliate da solchi dove scorre sangue e pus?
Ridi delle mie mani che non sanno stare ferme?

E’ il mio segreto, sai Guardia?
Io sento la musica, io la seguo sulla punta delle dita.

Dovevo stare più attento, oh lo so.
Lo! So!

Me lo diceva sempre lo Zio, sai Guardia?
Mi diceva che dovevo essere un finocchio discreto.

Tu puoi essere un finocchio ma non puoi vivere come un finocchio, diceva lo Zio. Non devi nemmeno sognare o immaginare come un finocchio.
Il caro, vecchio, Zio.
Era così infelice povero Zio, si eccitava come un bimbo davanti a un treno a vapore, per uno sguardo rubato, per una mano sfiorata,
Ogni sua stretta di mano era il ristagno di una carezza, povero Zio.
E ogni suo respiro, il ristagno di un grido.

Io,
Io la volevo tutta, questa mia vita,
tutta così, come mi chiedeva di essere vissuta,
io non volevo rosicchiare gli angoli.

Io ho baciato, abbracciato, ho toccato e scopato così tanto e non ho mai dovuto pagare, sai Guardia?
Ma certo che lo sai, quanta bella carne c’era attaccata a queste ossa.

Io sono pronta, ora inizio la mia canzone,

in prima fila c’è Christopher, che mi sorride, il mio piccolo Chris, con quel suo accento inglese, era adorabile.
Avrei dovuto seguirlo,
“Scappa con me a Londra”, mi ripeteva,
“la mia vita è qui, all’Eldorado, dolcezza”, gli rispondevo.
Chissà dove sei con i tuoi occhi verdi, mio piccolo Chris.
Chissà se ci pensi ogni tanto… ti ricordi? Berlino. 1930… autunno.

Io ti posso ancora sentire mio dolce Chris, nelle mie mani c’è il ricordo della tua pelle, nelle mie dita, la linea del tuo profilo.
Mi sorridevi, dalla prima fila.
Cherie.

“Qualcuno porti via Hans”.
Vogliono che ce ne occupiamo noi dei corpi.
Non ci vogliono toccare.

Non c’è nessuno che ci tocchi qui.
Per noi con il triangolo rosa non ci sono più abbracci o carezze.
Noi con il triangolo rosa sappiamo che siamo ancora vivi perché quando tossiamo, pisciamo o caghiamo sentiamo fitte di dolore.
Quando ci bastonano le gambe se non scattiamo subito al suono della sirena,
Fitte di dolore
quando ci spingono per terra per vedere quanti secondi impiega un invertito a cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi, cadere.

Il dolore dell’amore che se ne va,
E’ la mia canzone.
Meine Liebe.

Mi dicevi
“Scappa con me a Londra”
“La mia vita è qui, all’Eldorado, dolcezza”, ti rispondevo sempre.

Mi dicevi con il tuo adorabile accento inglese, mi dicevi “Questa non è la Terra Promessa”
La Legge, mi dicevi,
We are bandits”.

 

[Voce fuori campo]

Paragrafo Centosettantacinque:

La fornicazione contro natura, cioè tra persone di sesso maschile ovvero tra esseri umani ed animali, è punita con la reclusione; può essere emessa anche una sentenza di interdizione dai diritti civili.

 

(ride e canta)

Sei andato via da solo, meine Liebe.

 

 

Monologo teatrale scritto da Michela Armenia, rappresentato durante l’evento Blackout – giorno della memoria al Munizioniere di Palazzo Ducale il 29 gennaio 2017, organizzato da Arcigay Genova.

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *