Me la sogno ancora, precisa in ogni dettaglio. Le piastrelle di cemento bianche e nere del corridoio, tirate a lucido dalla domestica senza collo che passava lo straccio di lana con la galera; il parquet del salotto, che per me, abituata ai pavimenti di graniglia alla genovese, sembrava una cosa esotica; la grandissima cucina dove mi abbuffavo di biscotti strapieni di marmellata pucciati nel tè.

Casa di bambola

di Elisabetta Pellegrino

Tutte le stanze si aprivano sul corridoio centrale e ognuna era un mondo a sé, come in una casa di bambola.
Nella stanza dove erano cresciute mia zia e mia madre, con i letti di ferro gemelli coperti da tante mani di vernice da avere un colore indefinibile, si respirava ancora l’entusiasmo di due ragazzine che crescevano.

La stanza di mia nonna era oberata da mobili neri e minacciosi e lì spesso passavo le mie notti insonni ad ascoltare la sua implacabile sveglia di latta e i tubi dell’acqua che cantavano incessantemente, lottando contemporaneamente con le zanzare e il caldo della Lomellina.

Mia madre era solita spedire lì uno o più dei suoi cinque figli, per tentare di alleggerire un po’ la sua ricca ma impegnativa esistenza.

Che io fossi sola o in compagnia di mia sorella o qualcuno dei fratelli, per me era sempre un piacere grandissimo andare a casa della nonna. Significava essere in vacanza e libera di misurare la mia indipendenza, anche a costo di scontrarmi con la nonna, che mettendosi sullo stesso piano di noi bambini ci impegnava in furibonde discussioni sulle nostre pretese di autonomia.

Ma se non potevo andarmene in giro da sola per il paese, come avrei voluto nell’incoscienza dei miei pochi anni, allora mi dedicavo alle avventure in interni.

Sceglievo una delle camere e la esploravo scientificamente, cominciando coll’annusare l’atmosfera che mi evocava. Poi mi sedevo su una poltrona o mi sdraiavo su un letto e guardavo ogni particolare, come per fissarlo bene a mente: le maniglie incongruamente rosse di un armadio davvero brutto nella camera degli ospiti, i pomi di un letto di ottone che molto mi piaceva e già avevo messo nella lista della mia eredità, i vetri istoriati del buffet e del controbuffet del salotto, il sacchetto pieno di caramelle aromatiche di mio nonno, che ogni tanto rubavo e assaporavo con gran gusto.

Poi, cercando di non farmi scoprire, aprivo tutti i cassetti e i ripostigli di ogni mobile e esaminavo con interesse filologico tutto il contenuto.

La casa era per me un enorme giocattolo e mentre esploravo le stanze, mi inventavo grandi storie, ispirate dai particolari che mi avevano colpito e il mio tempo passava felice.
Quando mio nonno andò in pensione, lasciarono la casa e vennero a vivere vicino a noi, ma in quel momento io stavo finalmente esplorando la vita vera e non detti molto peso a quell’abbandono.

Dopo qualche anno seppi che la casa era stata trasformata in un ufficio e provai un dolore immenso, che con mio sconforto e stupore ci mise molto tempo a passare.

Avevano cancellato per sempre i miei sogni di bambina nella sua casa di bambole.

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