Officina Letteraria e UDI.

“Una donna, un giorno” è il titolo del reading che Officina Letteraria e UDI- Unione Donne in Italia – hanno deciso di ideare e mettere in scena presso la Biblioteca Margherita Ferro, il 6 novembre 2015. Ognuna delle partecipanti, in tutto sedici, ha scritto un racconto che aveva come traccia la descrizione di una giornata di una donna oggi. Le parole delle scrittrici partecipanti sono stati accolte presso la sede dell’Udi e lì hanno trovato orecchie coscienti e curiose, entusiasmo e possibilità di confronto. La sede dell’UDI di via Cairoli 14/6  porta appesi alle pareti i manifesti delle battaglie femministe che settant’anni fa iniziavano a diventare fondamentali nella storie delle donne di questo paese: aprire le porte alle parole delle donne oggi, è stato un grande aggiornamento del file, uno sguardo trasversale che ha connesso tutte, lettrici e ascoltatrici, ad una radice comune, dalla quale attingere per interpretare ogni singola posizione. E cercare di capire. Aggiustare un po’ la rotta. Farsi delle domande. Trovare delle risposte, nelle esperienze dell’altra. E soprattutto, forse, sentirsi comprese e rispettate, oggi, nel proprio essere diverse, una dall’altra: oltre ai clichè, oltre alle definizioni. 

Bussola

la giornata di Emilia

“The future is dark, which is the best thing the future can be, I think.”

Virginia Woolf

Premessa: ho chiara la meta, ma non ho mai immaginato la mappa.

I numeri che contano: cinque, sei, sette e cinquantacinque, tredici e cinquantacinque, sette, diciannove e trenta, ventuno e trenta, venti, due, quarantadue, settantatre, sessantadue e mezzo, sessanta, diciotto, venticinque, due, quattro.

Le azioni: svegliarsi, lavarsi, pesarsi, vestirsi, scusarsi, sorridere, pregare, comprare, mangiare, guidare, preparare, spiegare, sgridare, scrivere, correggere, studiare, parlare, dialogare, telefonare, fare, credere, guardare, dormire, misurare, confrontare, accettare, rifiutare, pulire.

Queste sono le ossa del mio tempo. Adesso viene la ciccia.

Oggi è mercoledì: io, mi sveglio alle cinque, come al lunedì e al martedì. Ho calcolato tutto: sveglia, pipì, caffettiera, fuoco sotto il caffè, pipì, bilancia, faccia, ascelle, denti, spengo il fuoco sotto il caffè, troppo tardi, non pulisco la pozza sul fornello, non mi faccio domande su chi mi vede dalla finestra di fronte, discinta in varie maniere, mi vesto, sperando in innumerevoli grazie, e oggi non ne ho voglia, vorrei una tuta, ma no, così sacco di patate anche no, allora tutta di nero, che non necessita pensieri e accoppiamenti, e comunque è tutto largo, e un anno fa era troppo stretto, e faccio colazione, e fumo la prima sigaretta e controllo la posta elettronica e, per carità, nessuno che parli alla radio o in generale, e meno male che al momento non vedo nessuno, perché al mattino che parlano o commentano le notizie o ballano canticchiando e leccandosi i capezzoli (storia vera, perdinci!) e allora son soddisfatta della magra però intanto c’ho fatto caso e m’impegno in una dettagliata e puntigliosa discussione immaginaria con l’ultimo dei miei ex, da cui esco vincitrice morale e fattuale.

… m’impegno in una dettagliata e puntigliosa discussione immaginaria con l’ultimo dei miei ex, da cui esco vincitrice morale e fattuale.

Soddisfatta, finisco la vestizione e guardo l’orologio del bagno.
Ho calcolato tutto; ho calcolato male: sono in ritardo. Arrivo alla macchina. Non è la mia.

Pausa.

Ravvio.

Ho trovato la macchina. Alla seconda passata. Metto in moto, accelero in prima, troppo, porcaccia ho dimenticato di preparare la lezione per la bambina straniera che, nonostante le mie distrazioni e casualità, sta imparando l’italiano, devo pure procacciarmi il cibo, perché si ha da mangiar bene, ma non è più così importante (il cibo) finché mi peso, e allora ricalcolo, ripasso e stabilisco soluzioni: gli esercizi per la straniera, il tragitto per il cibo. E mi godo la sopraelevata, che, a Genova fa brutto dirlo, ma è bella, per la vista.

E mi godo la sopraelevata, che, a Genova fa brutto dirlo, ma è bella, per la vista.

Arrivo a scuola.
Cinque ore, due con diciotto, tre con venticinque: Storia, Antologia, Storia, Antologia, Geografia; ogni istante moltiplicato almeno per tre: i tre livelli, i cinque pluribocciati, i sette interessati, non importa, ma almeno tre. Il tempo si dilata sotto il tentativo di stare dietro a tutti finché non tocca la certezza del fondale: sto facendo giusto.

(Ogni giorno di scuola non è cinque, ma quindici-trenta ore). Alla fine, oggi soddisfatta: animo leggero, cervello elastico: la seconda ha retto l’analisi degli aggettivi ne “L’Infinito” di Leopardi, la prima inizia a esprimere dubbi.

Abbiamo provato l’evacuazione in caso d’incendio e non siamo morti. Dieci minuti e si era di nuovo in classe. Scendiamo, siamo tutti liberi, ma ho parlato troppo presto. Mentre cerco cartine, tabacco e filtri, che hanno la stessa esistenza intermittente di chiavi, portafoglio e cellulare, una mamma mi viene incontro, saluta e chiede cosa è successo con la figlia. Errore uno: mi fermo, dovrei rimandarla all’orario di ricevimento. Errore due: non mi ricordo. Lei incalza, ma sì, l’ha interrogata e l’ha rimanda a posto. Focalizzo: la bimba, prima media, bravina, interrogata di Storia, non la sa, non avevo voglia di dar votacci, l’ho mandata a posto e le ho detto di tornare la volta dopo. Lei incalza.
“Ma c’era un cinque!”
“Signora, poi le ho dato sei e mezzo.”
“Ma c’era un cinque!”
“Si, ma non c’è più.”
Alziamo la voce. Maledetta io che mi dimentico, maledetto registro elettronico, tento di spiegare che quel voto non l’ho detto alla bambina, che era un promemoria per me, ma niente, lei insiste.
“C’era un cinque!” ripete “E la bambina ha pianto! Sa quando sua figlia piange?”

No, non lo so, io non ce l’ho una figlia. Non ho un figlio. Non ho una cane. Non ho un gatto. Ho due piante del buio e un’orchidea dell’Ikea. Il resto della mia capacità di cura l’ho messo in vendita, e va bene così.
Ma ho capito. Mi calmo. Rispiego. La mamma non è convinta ma molla il colpo. Mi guarda, mi saluta e se ne va. E, giuro, abbraccia la figlia.

Il resto della giornata ha il ritmo della mattinata, con la comodità della tuta e della casa.
Alle undici, spengo tutto, anche la sigaretta, e sono felice: faccio piangere le undicenni, non ho figli, sbaglio tutto. E sono felice.

Deduzione: senza la mappa, c’è solo la bussola, io.

    Comments:

  1. ste.b
    1 Gennaio 2017 at 11:28 pm

    Bello!!

  2. fabiola
    3 Gennaio 2017 at 3:04 pm

    veloce ed incisivo al punto giusto…molto bello….mi sembrava di ascoltare un capriccio di paganini…..brava!

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