Siamo arrivati al 2017, e sono cinque anni di Officina Letteraria. Abbiamo festeggiato con 120 soci e due nuove scrittrici esordienti, Clara Negro e Ilaria Scarioni. Clara ha pubblicato con Harper Collins e Ilaria uscirà con un romanzo per Mondadori a fine giugno. Intanto Giulia Cocchella sta per presentare il suo secondo libro per bambini; Andrea Fabiani è un poeta, anzi un poeta performativo, vi consiglio di seguire quello che scrive e fa. Cinzia Pennati ha aperto un blog che si è subito conquistato un pubblico. Anche Manuela Romeo ha pubblicato un romanzo con un piccolo editore ligure e Andrea Contini sta per uscire con una bella storia. Altri sono in lettura presso Editor e agenti. Insomma, c’è movimento. C’era una volta il duemiladiciassette 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Non solo romanzi, anche racconti o fiabe. Sta per uscire il Repertorio dei matti di Genova (Marcos y Marcos) curato da Paolo Nori e scritto da quattordici autori di Officina. In eBook, con Emmabooks, abbiamo la raccolta Oltre le fiabe, una bella antologia realizzata dal laboratorio di Anselmo Roveda, l’autore che dal 2012 cura i nostri laboratori sulla narrativa per l’infanzia e i ragazzi, e Sara Boero. Io e Ester Armanino abbiamo appena terminato il nostro primo laboratorio per un’azienda, Costa Crociere, un’esperienza interessante con un bellissimo gruppo. La condivisione dello spazio di Officina Letteraria con Elisabetta Marasco e le sue classi di bioenergetica ha dato vita a una collaborazione che si è concretizzata nel laboratorio Il diario del corpo, a Sori, condotto insieme a Eugenio Gardella. La scrittura è anche corpo, energia, voce. Ne curiamo tutti gli aspetti con l’aiuto di una maestra calligrafa come Francesca Biasetton, di musicisti, performer come Augenblick, di attori come Dario Manera, Pino Petruzzelli, Antonio Zavatteri. La scrittura è anche un territorio di relazioni perciò collaboreremo al progetto MIGRARTI di Suq Genova e abbiamo appena instaurato un’amicizia è una collaborazione con le donne marocchine dell’associazione La Palma. Potrei continuare, ma mi trattengo… Il 6 maggio abbiamo festeggiato con una giornata emozionante che ha dimostrato quello che ho cercato di raccontarvi in questi post di ricordi. Officina Letteraria è una comunità ed è uno spazio di passioni, di sogni e di risultati concreti.
Nel 2016 abbiamo presentato i nostri laboratori al Consiglio di Corso di Laurea in Lettere dell’ Università di Genova ottenendo il riconoscimento come crediti formativi. Forse per questo o forse perché cominciavamo ad essere un po’ più conosciuti, il numero di giovani che si avvicinano a Officina dal 2016 è aumentato in modo significativo. C’era una volta il duemilasedici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Nel 2016 abbiamo preso la decisione di affidare il laboratorio sul romanzo, il nostro terzo livello, quasi esclusivamente a editor, riservando agli scrittori il racconto di un’esperienza, i suggerimenti personali. Abbiamo individuato una guida del laboratorio, Antonio Paolacci, abbiamo mantenuto il contributo prezioso di Laura Bosio e abbiamo cominciato una prima collaborazione con Angela Rastelli, editor Einaudi. Laura Bosio è diventata una colonna portante della nostra scuola; tutte le persone di Officina che hanno pubblicato l’hanno avuta come maestra o l’hanno scelta come tutor. Nel 2016 è nata una collaborazione con la Biblioteca comunale di Sori e con Valeria D’Agata. Il laboratorio di Sori Apprendista scrittore ha avuto subito un gruppo di entusiasti e fedelissimi raccontatori di storie. Il laboratorio estivo ad Apricale è stato un divertente gioco letterario al quale hanno partecipato una decina di persone di varia provenienza, non solo dalla Liguria. Come sempre abbiamo lavorato nell’Atelier A e siamo stati ispirati dalla particolare atmosfera del paese. Nel 2016 è uscito il romanzo di Eugenio Gardella, Sei sempre stato qui (Frassinelli). Nel 2016 è nata Edicolibro, punto di scambio libri ma anche scambio di idee, luogo di reading e di socialità, in piazza della Meridiana. Dieci associazioni e diversi volontari ne garantiscono l’apertura.
Il 2015 è stato l’anno delle collaborazioni, degli eventi esterni a Officina, dell’apertura alla città. C’era una volta il duemilaquindici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Un gruppo, del quale facevo parte anch’io, composto da Giulia Cocchella, Andrea Fabiani, Federica Kessisoglu, Dario Manera, Ilaria Scarioni, Marta Traverso, Elena Mearini, ha avuto l’opportunità di collaborare con Approdo Arcigay in occasione di una importante mostra-convegno, alla Commenda di Prè, intitolata “Dimenticare a memoria”. Un lavoro di riflessione e di ricerca sull’Olocausto, un percorso di scrittura forte, emotivo, che ha lasciato una traccia profonda dentro di noi. Nel 2015 Ester Armanino ha guidato un collettivo di giovani di Officina, i Caratteri Mobili, in un lavoro sul tema del cibo per partecipare al Bando per la Biennale dei Giovani artisti del Mediterraneo. Il risultato è stato Re-story-ant, un racconto da comporre, con più di 4.000 combinazioni. Il gruppo è stato selezionato per partecipare alla Biennale a Milano nell’ambito di Expo 2015, e il lavoro di scrittura è stato presentato con un’installazione e un video realizzato da Alessandro Bellagamba, direttore della Scuola di cinema di Villa Bombrini. Abbiamo cominciato la collaborazione col gruppo Augenblick con un laboratorio legato al loro super-premiato video “Su misura”. Siamo tornati ad Apricale con il laboratorio Cercatori di storie. In occasione della riapertura dei corsi a settembre abbiamo allestito Il montaggio di una storia, riaprendo per un giorno l’ex edicola di giornali di Piazza della Meridiana. Il successo dell’iniziativa ci ha spinto a presentare al Municipio centro est un progetto per la riapertura dell’edicola. Intanto qualcuno cominciava a pubblicare: usciva l’Omino dei desideri di Giulia Cocchella. Giulia era stata nei laboratori di Officina, poi aveva proseguito il suo percorso autonomamente; il fatto che pubblicasse ci rendeva tutti orgogliosi. Sono quasi certa che anche gli aspiranti scrittori di Officina abbiano affidato un desiderio, forse un sogno, all’Omino creato da Giulia.
Il 14 febbraio 2014, il giorno di San Valentino, è uscito Senza Amore, il nostro primo ebook con Emmabooks, editrice digitale: un’antologia di racconti d’amore scritti senza utilizzare mai la parola amore e altre parole consuete della narrazione dei sentimenti. C’era una volta il duemilaquattordici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Nel 2014 non abbiamo resistito al richiamo della nostra amica Zuzanna e siamo tornati in Polonia, a Cracovia. Zuzanna ci ha introdotto nel mondo delle fiabe e delle leggende polacche e Cracovia ci ha stregato. L’emozione della visita ad Auschwitz è custodita nei nostri quaderni di viaggio, in qualche caso è diventata un racconto. Nel 2014 c’era un bellissimo gruppo di allievi impegnati nel laboratorio sul romanzo. Un gruppo numeroso, composto in gran parte di persone che provenivano dal primo nucleo di allievi dell’esordio di Officina Letteraria. Un gruppo affiatato che ha concluso l’esperienza con una passeggiata per la città, Genova fra luoghi e parole, patrocinata dal Municipio Centro Est. Racconti e musica nelle piazze e nelle strade del centro storico, racconti e musica strada facendo, nel corso di un lungo pomeriggio, fino alla Commenda di Pré. Nell’autunno, cinque creativi provenienti da quel gruppo creavano il Collettivo Linea S; insieme a molte altre iniziative, ci ha regalato una stagione al Count Basie Jazz Club con uno strepitoso gioco letterario, Non sparate allo scrittore, che ha permesso a molte persone dei corsi di Officina, e non solo, di cimentarsi con la scrittura a tema e con la lettura ad alta voce. Il 2014 è stato l’anno della Punteggiatura d’autore con Elisa Tonani; l’anno del Sabato sulle emozioni con Sara Rattaro e sulla Scrittura ironica con Barbara Fiorio; l’anno di Giorgio Gallione con un workshop di Scrittura per il teatro e di Officina ragazzi con Sara Boero. Nel 2014 Ester Armanino è diventata un pilastro di Officina Letteraria, arrivando con un bagaglio di idee, progetti, impegno generoso e passione. Ha trascinato persone, convinte di venire semplicemente a scrivere, in esperienze creative fantasiose dal Metro quadro di città al Greenwriting. Lei architetto, io docente di storia dell’arte contemporanea, abbiamo gradualmente sperimentato un metodo che passa attraverso la creatività espressa in molte forme e che alla fine approda sempre alla scrittura.
Il 2013 è stato l’anno del romanzo collettivo: un laboratorio sperimentale con dieci persone impegnate a scrivere un romanzo breve. Un’esperienza non semplice ma entusiasmante e alla fine il romanzo Oltre il mare, la storia di due ragazzi immigrati che sbarcano a Lampedusa, ha debuttato con un reading al Festival Suq. C’era una volta il duemilatredici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco Il 2013 è stato l’anno del viaggio a Varsavia, grazie alla collaborazione con Zuzanna Krasnopolska. Zuzanna ha conosciuto Officina da allieva nel laboratorio estivo ad Apricale, lavorava allora come ricercatrice all’Università di Varsavia, era – è ancora – innamorata dell’Italia e della lingua italiana. Grazie a lei, abbiamo visitato Varsavia sulle tracce di due romanzi polacchi; Elena Mearini, recente maestra di Officina, ed io abbiamo coordinato un gruppo di scrittura di allievi di Officina e di studenti polacchi di italianistica e abbiamo sperimentato il nostro primo laboratorio nomade Scrivere a… Il 2013 è stato l’anno della Scuola elementare di scrittura emiliana (a Genova) di Paolo Nori che si è concluso con un reading al Munizioniere e un quaderno di racconti stampato. Il 2013 è stato l’anno del Sabato in Officina, un workshop tenuto per un sabato al mese con uno scrittore sempre diverso. È stato l’anno del primo workshop Scrivere un corto con Federica Pontremoli, sceneggiatrice di film di Soldini, Moretti, Ozpetek. Nell’estate del 2013 Claudia si è trasferita in campagna e ha ricominciato a viaggiare. Non sono rimasta sola a lungo perché il lavoro che abbiamo fatto insieme ha creato un luogo, Officina Letteraria, con un cuore pulsante e Marta Traverso e Clara Negro mi hanno aiutato a traghettare Officina nel 2014.
Non era scontato. Nel 2012, quando l’avventura di Officina Letteraria aveva inizio, non era scontato che potesse durare nel tempo. Ho cominciato a immaginare una scuola di scrittura probabilmente sull’onda di un cambiamento che era avvenuto nella mia vita con l’uscita dei miei primi due romanzi e con la conclusione di un’esperienza professionale importante come la direzione dell’Accademia Ligustica di Belle arti. Con il termine del mio mandato riprendevo il mio ruolo di docente, riscoprendo da un lato la felicità della didattica e dall’altro un tempo che avevo a disposizione e che per quasi dieci anni era stato assorbito dal lavoro organizzativo. E’ stato un amico a ispirarmi: “Ora cosa farai di tutto quello che hai imparato?”. C’era una volta il duemiladodici 5 anni di Officina Letteraria di Emilia Marasco A ripensarci credo proprio che sia stata quella domanda a far scattare la mia immaginazione. Tra le cose che avevo acquisito c’era la convinzione che perché un’idea riesca a diventare progetto e poi realtà, non si possa pensare di fare tutto da soli. Ho cominciato a pensare alle persone da coinvolgere ma non mi decidevo a parlarne con qualcuno in particolare. Poi, un giorno, ho telefonato a Claudia Priano. Non ci vedevamo da un po’, lei aveva fatto un viaggio, stava scrivendo il suo quarto romanzo, anch’io avevo un viaggio importante da raccontarle. Non avremmo mai smesso di parlare, di scambiarci pensieri ed emozioni… così le ho parlato dell’idea che avevo in testa. Claudia ha subito alimentato e arricchito quell’idea con una passione che è diventata subito forza motrice. Due temperamenti diversi, due esperienze di vita diverse, due scrittrici diverse: di simile avevamo l’entusiasmo, il decisionismo e forse un pizzico di follia. Così Officina Letteraria è nata al tavolino di un caffè del centro storico e molti altri caffè genovesi sono stati in quel periodo il nostro ufficio, insieme talvolta alla cucina di casa mia. Abbiamo riflettuto e discusso su ogni dettaglio, ci saremmo servite il meno possibile della parola scuola. Immaginavamo un metodo orizzontale, un gruppo in cui il conduttore fosse qualcuno che mette a disposizione un’esperienza, strumenti e un sapere acquisito sul campo. Immaginavamo un gruppo di maestri, ma abbiamo deciso di cominciare con un primo laboratorio sperimentale per poi valutare i risultati e progettare una crescita. Quello che non potevamo immaginare era l’interesse che la nostra proposta avrebbe suscitato. Dopo la presentazione alla sala Sivori, con i nostri primi dodici iscritti e una lunga e inaspettata lista d’attesa, abbiamo deciso di attivare un secondo laboratorio per un altro gruppo di dodici iscritti. Dieci di loro sono ancora in vario modo parte di Officina. Il laboratorio intitolato “Io e gli altri. Raccontare e raccontarsi” si è concluso con un reading nel Munizioniere di Palazzo Ducale. Nell’estate, alcuni aspiranti scrittori ci hanno seguito ad Apricale e altri sono arrivati. Un laboratorio memorabile per la particolarità del paese, per l’interazione con gli abitanti, per la presenza di Bruno Morchio e i suggerimenti di Bruno Cereseto (del Teatro della Tosse) per il reading finale nell’Atelier A. Nell’autunno abbiamo inaugurato la sede di via Cairoli, con i tavoli colorati trapezoidali, l’angolo del caffè, le opere di tre artisti (Gregorio Giannotta, Mauro Panichella e Giulia Vasta) e un programma ambizioso: laboratori di primo, secondo e terzo livello, workshop, i seminari del sabato e, oltre a noi, Laura Bosio, Bruno Morchio, Giulio Mozzi, Paolo Nori, Federica Pontremoli. Emilia Marasco
Il bosco odorava di more selvatiche. Un riccio, poco più grande di una zucca, si faceva strada nel sottobosco umido, in cerca di vermi e lombrichi carnosi. A un tratto sollevò il muso e corse via zigzagando tra le foglie. Gretel fece un balzo e soffocò un grido. ― E’ solo un riccio. La apostrofò Hansel, sbuffando sonoramente. ― Shh… ho visto un’ombra, lì, dietro quel tiglio. Ho paura. Gretel si aggrappò al braccio del fratello e si guardò attorno tenendo una mano sulla bocca. Il bosco scricchiolò nella luce del pomeriggio e un lembo di rosso spuntò da un cespuglio di rovi. ― Ma è solo una bambina! Gretel scoppiò in una risata aperta e la bimba si rivelò del tutto. ― Scusate se vi ho spaventato. Mi sono persa, ho sentito dei rumori e temevo fosse il lupo. Hansel e Gretel si avvicinarono alla bimba facendo scricchiolare le foglie secche. Un sol boccone di Antonella Botti ― Io mi chiamo Hansel e lei è mia sorella Gretel. Non abbiamo visto nessun lupo. Girovagavamo nel bosco, poi abbiamo sentito un profumo invitante di burro e zucchero e abbiamo seguito la traccia fin qui. ― Mi chiamano Cappuccetto rosso, non ho nulla da mangiare. Mostrò un cestino vuoto e aggiunse. ― Sento che il lupo mi sta seguendo. Si voltò verso nord con le mani strette sul cestino, le nocche chiare, gli angoli della bocca all’ingiù. ― Mia nonna abita oltre il fiume, stamattina abbiamo mangiato le focacce al miele ― abbozzò un sorriso ― mi sembra passata un’eternità. ― Vieni con noi, segui questo profumo. Lo senti? Gretel allungò una mano aperta verso Cappuccetto rosso. Le bimbe sorrisero. I tre si presero per mano e si addentrarono nel bosco. Camminarono il tempo che impiega un tasso a scavare una galleria profonda e ritrovarono quel profumo. A occhi chiusi la seguirono, mani sudate e testa in su. Il lupo ripartì, col muso a terra e l’animo leggero. Le prede erano aumentate. E poi, i tre bambini, finalmente, la videro. Morbidi fiori colorati, coperti da cristalli di zucchero, circondavano una piccola casetta dai muri soffici di focaccia dolce. Archi di cioccolato circondavano le lastre delle finestre ambrate, erano così simili al caramello. I bambini lasciarono andare le mani, finalmente alla meta, corsero verso quel sogno dolce e attraente. Con le dita affondate nei vasi ricolmi di cioccolato, intravidero la porta socchiusa. Cappuccetto rosso richiamò i fratelli con le mani sporche di crema e un largo sorriso di cacao. Gretel corse in direzione di lei ― Se fuori è così, immagina dentro. Rise in direzione di Hansel. ― Forse è meglio di… Ma Cappuccetto rosso e Gretel erano già scomparse all’interno. Hansel guardò intorno il bosco buio e immobile ed entrò, facendo cigolare il grosso biscotto che lo divideva dalle bambine. ― Non vedo nulla. Cappuccetto rosso procedeva tentoni sul pavimento, scontrò un tavolo di legno e si fermò. ― Qui non c’è quel buon odore, usciamo ― fece Hansel. Uno scricchiolio più lungo e la porta si chiuse sbattendo. I tre bambini non videro chi li raccolse come legna da ardere e li caricò all’interno di una casetta di legno, un tetto, sbarre e troppa distanza da terra. Sentirono solo un odore asciutto di polvere antica che tolse loro il fiato mentre cercavano di urlare. La mattina successiva, appena svegli, i bambini trovarono tre piatti ricolmi di frutta, patate dolci, frittelle e succhi profumati. Mangiavano e piangevano, guardandosi muti e incapaci di darsi una ragione. Di sera, al buio, una figura si muoveva attorno al camino, sorbiva al tavolo da ciotole di legno, si avvicinava alla gabbia in silenzio e lasciava sui vestiti dei bambini lo stesso odore secco di polvere antica. Trascorsero gli stessi giorni che impiega un merlo a costruire un nuovo nido. Quel lupo magro e grigio si aggirava da giorni intorno alla casa. Forse aspettava che i bambini uscissero o forse no. Annusava i dolciumi che grondavano da quella casetta isolata e si allontanava disgustato. Tornò ogni giorno, senza mollare l’odore della sua preda che si faceva sempre più fievole e si mescolava a un sentore di latte grasso, fresco, appena munto da gonfie mammelle di mucca. Una notte, quella più scura che Hansel e Gretel avessero mai ricordato, quella figura restò attorno a loro più a lungo. Armeggiava in un vano che i bambini avevano sempre visto chiuso da uno sportello pesante. Rumore di legna, crepitio e poi il fuoco. Una voce rauca, di donna, o forse no, con un alito caldo che sembrava vivo e che si infilò tra le sbarre pesanti, disse: ― Questa notte vi mangerò. I tre bambini si aggrapparono alle sbarre e liberarono tutta la voce che in quel tempo indefinito era rimasta prigioniera nelle loro gole. Cappuccetto spalancò quanto più possibile gli occhi per vedere quella figura, Hansel urlò: ― Non toccherai mia sorella, brutta strega. Gretel lo guardò. Appena ebbe ascoltato quel nome, capì finalmente e cadde immobile. Cappuccetto guardò la bimba nel suo vestito azzurro ormai sgualcito e interrogò con lo sguardo Hansel. ― Una… mangiabambini? Hansel si accasciò in un angolo senza annuire e la porticina, al buio, si aprì. ― Comincerò da voi due. La figura spalancò la gabbia e infilò un braccio robusto dentro, senza guardare, cercando di afferrare qualunque cosa viva si muovesse sotto le sue mani. Strinse Hansel nella sua morsa, il ragazzino cercò di opporre resistenza, ma venne portato fuori come un giunco. Toccò a Cappuccetto, immobilizzata dalla paura. Appena sentì quel tocco capì che quella figura era una donna. Il fuoco ormai sfavillava nel forno e i ciocchi di legno di castagno crepitavano e rischiaravano a sprazzi la casetta umile: un tavolo, un mobile, un camino, un pagliericcio e vasi a terra sparsi senza ordine. Cappuccetto rosso aveva finalmente visto dove aveva trascorso tutto quel tempo. Quella donna gettò la bimba accanto a Hansel, sotto il forno, tra le faville e le lingue di fuoco che bucavano i vestiti e
Nella guida di Londra che ho comprato tengo il segno sulla pagina della Westminster Abbey. C’è scritto che qui sono sepolti ventotto sovrani e più di cinquanta grandi personalità della storia dell’arte, della letteratura e della tecnica. Gente che ha lasciato un segno imperituro. Sopravvissuti di Andrea Suma E io? Io sono qui, in mezzo a loro, nel cuore prospettico della croce latina, con la guida da 14,99 in mano e l’indice infilato tra le pagine, perché il segnalibro che ho comprato in quella bancarella di souvenir, figuriamoci, l’ho già perso. Chissà dove l’ho lasciato. Da qualche tempo dimentico tutto. La morte dà così tanto da pensare che non riesco a organizzarmi più come prima e dimentico persino il bagaglio a mano sull’aereo. Meno male che Giulia, come sempre, è qui con me, in un questo viaggio post laurea, a ricordarmi del bagaglio a mano, a ricordarmi del mio spazio umano incatenato alle piccole incombenze quotidiane. Eccomi qui, all’incrocio tra la navata e il transetto, una ragazza convinta di poter morire da un momento all’altro dopo sole ventiquattro primavere una laurea e niente di straordinario, schiacciata da due dimensioni: quella orizzontale dei morti che non sono morti, della gente che ha lasciato un segno imperituro, e quella verticale delle crociere goticheggianti, campate che toccano il cielo, molto più alte più vecchie più durature più importanti di me. Mi guardo attorno e il mio cuore, il mio ritmo su questa terra, è sempre più veloce, fibrilla come un pazzo. Cerco di respirare per placarlo ma l’aria è densa e immobile e lui corre senza briglie, vuole scappare via da me. Aspetta cazzo, non sono pronta, non ora! Aspetta! Il pavimento della navata mi sembra si inclini, mi manca l’equilibrio; le navatelle si inviluppano, vogliono farmi scivolare giù, insieme ai morti che sono davvero morti, milioni di vite che non lasciano il segno. No, non ci sto. Ho solo una laurea ventiquattro primavere e niente di straordinario, non sono pronta. Devo correre verso l’uscita e mettermi in salvo. “Nella vita bisogna ascoltare il proprio cuore”, ci dice la retorica, e qualcuno si sente forse rassicurato, ma nessuno sa bene cosa significhi. Io invece sì. Sin da bambina sono sempre riuscita ad ascoltare il mio cuore. Ben presto ho scoperto che non era una cosa da tutti e ho iniziato ad esserne orgogliosa. Ero decisamente più avanti dei miei coetanei e credo dipendesse anche da questo: sentire il funzionamento involontario di un organo interno, in un battito ritmico e rumoroso, dà una profonda coscienza di sé. In più erano battiti giovani, battiti forti che picchiavano insolenti contro il petto. Amo lo sport dal mio primo respiro. Sono sempre stata la numero uno, mi piaceva esserlo. Vincere non era il superamento dell’altro, ma la sperimentazione del corpo, che portavo al massimo per sentire forte e chiaro quel battere sordo dentro di me: “sono qui, sono viva, lo sarò per sempre.” Quasi quasi non ti ascolto. Quasi quasi ho il vomito. Quasi quasi esagero. Se mi sopravvaluto. Anche a Giulia piacciono i Subsonica e cascasse il mondo non ci perdevamo un concerto, ma quella sera c’era qualcosa che non andava. Nulla di grave, sentivo il mio cuore come sempre, anche in mezzo a quel casino, ma Cristo come mi bruciavano gli occhi! La mattina dopo me li sentivo talmente grossi e pesanti che credevo mi cascassero. L’apprensione nella voce di mio padre era una nota per me sconosciuta, per questo me ne ero fidata ciecamente e avevo acconsentito senza fiatare. Il medico era un amabile dinosauro prossimo alla pensione, uno di quelli che ancora “ascolta” il corpo del paziente. Parlava con lui, lo toccava, lo picchiettava, ascoltava silente il suo rumore e ne decifrava concentrato i segnali. Mi era venuta un’infezione agli occhi; sicuramente la colpa era delle lenti a contatto. Avevo stabilito che era meglio scegliere un bel paio di occhiali, magari con una bella montatura tartarugata e un taglio da intellettuale. Dopotutto ero quasi una dottoressa, visto che mancavano solo tre settimane alla laurea. Ci voleva un bel paio di occhiali. “Perché? Cos’ha che non va?”. Che stronzate, il mio cuore stava benissimo. “Perché ha un battito molto forte. È anomalo. Sicuramente non è nulla, ma è meglio sincerarsene”. Era stato mio padre a rispondere. Io ero talmente incredula da non riuscire a proferire nemmeno le più banali formule di cortesia. Il cardiologo era un aitante quarantenne brizzolato con gli occhi arroganti. Seguivo con lo sguardo il suo incedere sicuro mentre, cartella alla mano, entrava nello studio in cui noi eravamo già seduti da un pezzo, chiudeva la porta e si accomodava sulla sua sedia imbottita. Mi ricordo quei dieci secondi in cui aveva fatto finta di leggere i risultati delle analisi. Mi ricordo che aveva alzato gli occhi arroganti e aveva guardato i miei con il rimprovero per un peccato che non sapevo di avere commesso. No, non me n’ero resa conto. Peccato mio. Peccato mio pensare di essere invincibile, credere che un cuore che fa un rumore forte è un cuore che vive forte. Adesso che sono corsa fuori dall’abbazia, con il cuore l’affanno e il vomito in gola, lo so che sono sopravvissuta, ancora un altro giorno. Mi guardo intorno, guardo tutti questi individui che, grazie ai loro cuori silenziosi, sopravvivono senza saperlo. Beati loro.
Me la sogno ancora, precisa in ogni dettaglio. Le piastrelle di cemento bianche e nere del corridoio, tirate a lucido dalla domestica senza collo che passava lo straccio di lana con la galera; il parquet del salotto, che per me, abituata ai pavimenti di graniglia alla genovese, sembrava una cosa esotica; la grandissima cucina dove mi abbuffavo di biscotti strapieni di marmellata pucciati nel tè. Casa di bambola di Elisabetta Pellegrino Tutte le stanze si aprivano sul corridoio centrale e ognuna era un mondo a sé, come in una casa di bambola. Nella stanza dove erano cresciute mia zia e mia madre, con i letti di ferro gemelli coperti da tante mani di vernice da avere un colore indefinibile, si respirava ancora l’entusiasmo di due ragazzine che crescevano. La stanza di mia nonna era oberata da mobili neri e minacciosi e lì spesso passavo le mie notti insonni ad ascoltare la sua implacabile sveglia di latta e i tubi dell’acqua che cantavano incessantemente, lottando contemporaneamente con le zanzare e il caldo della Lomellina. Mia madre era solita spedire lì uno o più dei suoi cinque figli, per tentare di alleggerire un po’ la sua ricca ma impegnativa esistenza. Che io fossi sola o in compagnia di mia sorella o qualcuno dei fratelli, per me era sempre un piacere grandissimo andare a casa della nonna. Significava essere in vacanza e libera di misurare la mia indipendenza, anche a costo di scontrarmi con la nonna, che mettendosi sullo stesso piano di noi bambini ci impegnava in furibonde discussioni sulle nostre pretese di autonomia. Ma se non potevo andarmene in giro da sola per il paese, come avrei voluto nell’incoscienza dei miei pochi anni, allora mi dedicavo alle avventure in interni. Sceglievo una delle camere e la esploravo scientificamente, cominciando coll’annusare l’atmosfera che mi evocava. Poi mi sedevo su una poltrona o mi sdraiavo su un letto e guardavo ogni particolare, come per fissarlo bene a mente: le maniglie incongruamente rosse di un armadio davvero brutto nella camera degli ospiti, i pomi di un letto di ottone che molto mi piaceva e già avevo messo nella lista della mia eredità, i vetri istoriati del buffet e del controbuffet del salotto, il sacchetto pieno di caramelle aromatiche di mio nonno, che ogni tanto rubavo e assaporavo con gran gusto. Poi, cercando di non farmi scoprire, aprivo tutti i cassetti e i ripostigli di ogni mobile e esaminavo con interesse filologico tutto il contenuto. La casa era per me un enorme giocattolo e mentre esploravo le stanze, mi inventavo grandi storie, ispirate dai particolari che mi avevano colpito e il mio tempo passava felice. Quando mio nonno andò in pensione, lasciarono la casa e vennero a vivere vicino a noi, ma in quel momento io stavo finalmente esplorando la vita vera e non detti molto peso a quell’abbandono. Dopo qualche anno seppi che la casa era stata trasformata in un ufficio e provai un dolore immenso, che con mio sconforto e stupore ci mise molto tempo a passare. Avevano cancellato per sempre i miei sogni di bambina nella sua casa di bambole.
Cosa so veramente delle mie figlie. Se lo sta domandando mentre piega maglie, ripone reggiseni e raccoglie collant sparsi tutt’attorno. Dalle finestre aperte le arriva sul petto la lama affilata della tramontana e l’abbaglio di un cielo che oggi, dopo tanto piovere, non ha neanche una nuvola. Fra poco metterà fuori un altro bucato, entro l’ora di pranzo sarà tutto asciutto. Quando lo hanno dato, il loro primo bacio. E a chi. Nessuno se ne accorgerà di Stefania Passaro Nei loro cassetti ha appena trovato della biancheria nuova, mai notata prima. Devono essersela comprata con i soldi ricevuti in regalo a Natale. Quando e con chi hanno fatto per la prima volta l’amore. Perché l’avranno già fatto, sicuro, ci puoi giurare. Forse la più piccola no, Sami è sempre così presa dallo studio, forse lei no, ma le due grandi, figurati. Le ha preso questa cosa, oggi – che non le succede mai, fra l’altro – e non riesce a smettere di pensarci. È come se all’improvviso qualcuno le avesse aperto uno spiraglio proprio davanti agli occhi e la costringesse da dietro, con una mano fra la nuca e il collo, a restare appiccicata a quella fessura, perché veda finalmente quello che non ha voglia di vedere. Stamattina si è alzata che tutti dormivano ancora – almeno così le era parso – e in bagno, prima di lavarsi la faccia, si è fermata a guardarsi allo specchio. La piega lasciata dal cuscino, fra la guancia destra e il mento. Dormire a pancia in su, bisognerebbe, ma se non le è riuscito finora non può certo sperare di cambiar posizione a cinquant’anni. La raggera di rughe intorno agli occhi, che non scompare più quando smette di ridere, resta. Come un castigo definitivo. Scombussolante, osservarsi per la prima volta con quello sguardo. Tanto che le è venuto di provare a vedere com’è la situazione se ride di meno, se sgrana un po’ gli occhi sollevando le sopracciglia, se invece di abbandonarsi e ridurre tutta la faccia in frantumi si controlla un po’. Increspare il giusto, ecco. Quel tanto che serve a dimostrare contentezza, ma con misura. Tenere a bada occhi bocca guance. Era così presa dal fare l’attrice davanti allo specchio che non si è accorta che Samantha era dietro di lei che la fissava, la faccia assonnata, un occhio aperto e l’altro chiuso per difendersi dalla luce. Ed era arrossita come in flagranza di reato. “Che ci fai già in piedi, Sami!”, aveva esclamato, voltandosi di scatto verso di lei. Sua figlia aveva abbassato lo sguardo, aveva spostato il peso da una gamba all’altra, e affondando le dita nella nuvola di capelli che le incorniciano il viso, se li era portati davanti agli occhi, come a calare un sipario. Poi, da lì dietro, aveva bofonchiato: “E’ che oggi vado prima, la versione di greco… Devo controllarla con la Cri, non c’ho capito niente”. Cri, la sua amica. Una brava ragazza, sembra. Ma chissà se lo sa, la madre, che ha una cotta per Luca. Se lo domanda mentre toglie dalla lavatrice un carico di lenzuola. Cristina ne parlava a Sami l’altro giorno, mentre studiavano assieme. Era stato facile ascoltarle, senza far rumore, dalla stanza a fianco. E mentre se ne stava lì e si meravigliava di stare facendo proprio lei quella cosa di origliare, di spiare le ragazze come una guardona, mentre si diceva di smetterla che non era giusto – che in fondo significava non fidarsi di sua figlia e, se continuava, voleva anche dire che qualcosa di Sami le era sfuggito per sempre, e il fatto di stare lì non glielo avrebbe certo restituito – ecco, mentre ferma in silenzio tratteneva il respiro, aveva sperato che Sami ripagasse le confidenze di Cristina rivelando qualcosa di sé, se c’è qualcuno che le piace, se è poi quel romano conosciuto in montagna, il motivo per cui ha sempre la testa fra le nuvole, come dicono le sorelle prendendola in giro. Ma niente, Sami non aveva detto niente. “Ok, mi lavo la faccia e ho finito”, ha detto alla figlia quella mattina, e dopo essersi voltata si è piegata velocemente sul lavandino. Lo specchio la chiamava ancora, ma lei ha ignorato il suo richiamo, ha fatto finta che non esistesse più, sul muro, un palmo sopra la sua testa. E si è buttata due manate di acqua gelida sugli occhi, sperando servisse a lavar via un po’ di anni. Tutti quelli che le sono caduti addosso da quando anche Samantha è diventata maggiorenne. E’ stato tre giorni prima. Ora ripensa a quanto ha cucinato quel giorno, il menu speciale con tutte le cose che piacciono alla figlia – i pansoti con la salsa di noci, la zuppa inglese con il pan di Spagna imbevuto di marsala e latte, strati di crema al cioccolato, crema pasticcera e copertura finale di panna montata. S’era dimenticata la guarnizione di amarene, però, e Sami, prima di spegnere le candeline, glielo aveva fatto notare davanti a tutti. “C’era cibo anche per i beati, dai!”, le aveva detto quella sera suo marito, mentre spegnevano la luce e si davano il bacio della buonanotte, per consolarla di quella che lei aveva patito come una vera e propria défaillance. Quella sera, in realtà, aveva sperato invano in complimenti più circostanziati – qualcosa del tipo “anche la punta di vitello è venuta una delizia” – ma poi, senza aspettarne di altri, s’era addormentata di schianto. Ma chi lo dice, pensa ora, risentita, chi lo dice che i diciott’anni sono importanti per chi ci arriva. Siamo noi genitori, in quel giorno, a varcare una soglia, per la quale non saremo mai abbastanza preparati. È per noi, non per i nostri figli, che è cruciale quel compleanno. Una molletta le sfugge di mano e con la molletta anche la federa che teneva per un angolo con due dita. Vede entrambe atterrare due piani più in giù, sul balcone sporco della vicina. È a quel punto che le arriva l’odore del ragù
Due cucchiaini di zucchero. Ogni mattina, alle 10:30, massimo 10.35, e il pomeriggio verso le 16:15, Michela (32 anni) chiedeva un caffè. Anzi ne esprimeva il desiderio ad alta voce, con tono fermo e quasi arrogante, in modo che Giulia (20 anni) a poche scrivanie di distanza, potesse sentirla. Caffè nero di Gabriele Carretta E Giulia, già dal tono della voce, e abbassando lo sguardo per intravedere l’ora sullo schermo del pc, sapeva cosa doveva fare. Apprezzava in fondo che Michela almeno fosse puntuale e abitudinaria in modo quasi patologico, così poteva organizzare il suo lavoro in modo da non doversi interrompere sul più bello, magari durante la trascrizione di un atto, o di qualsiasi altra cosa noiosa, ripetitiva e pesante toccasse fare ad una giovane e inesperta stagista in un affermato studio legale genovese. Alle 10:29 salvava il documento (cliccava 2 volte sull’icona a forma di floppy disk, per sicurezza o per scaramanzia forse) su cui stava lavorando, e poi lo rileggeva, giusto per non dare l’idea di tergiversare. Il momento arrivava, sempre abbastanza puntuale. Il suono fastidioso della voce di Michela, da 10 anni segretaria in quello studio, aveva un che di fatale; Giulia lo attendeva quasi come si aspetta la pioggia sotto un cielo plumbeo, fa sempre meno paura della minaccia che la precede. Due cucchiaini di zucchero, di canna se ce n’era ancora, in quel armadietto un po’ dozzinale che mal si abbinava con l’eleganza dello studio. La macchina del caffè, posta proprio sotto quel mobile distribuiva caffè decenti, non ci si poteva davvero lamentare. Dopo aver messo lo zucchero, due cucchiaini mi raccomando, Giulia mescolava lentamente, e nel frattempo cercava di capire con discrezione se qualcuno nello studio la stesse osservando. Quando era sicura di non essere nel campo visivo di nessuno, si girava col caffè in mano verso l’armadietto per chiuderlo o per dare l’idea di cercare qualcosa. In quell’attimo, col viso nascosto al mondo e il cigolante rumore dell’anta dell’armadietto che si chiudeva, Giulia guardava il colore nero del caffè nella tazzina, in cui specchiava ogni mattina il suo umore, e ci sputava dentro. Durava pochi secondi , il tutto, e dopo, Giulia si sentiva meglio. Era una specie di gesto catartico, le sembrava quasi innocente, privo di conseguenze. E in effetti Michela beveva il suo caffè con gusto, o comunque senza dare segni di insofferenza. Poche gocce di saliva, sciolte nel caffè, la piccola, meticolosa e quotidiana vendetta di una ragazza, una donna in difficoltà. In grossa difficoltà, perché a 20 anni, finito il liceo, entrare in quello studio era davvero una bella occasione, ma le difficoltà ambientali erano oggettivamente molte. E non solo per la sua inesperienza; gli avvocati dello studio erano tutto sommato cordiali, o comunque non le davano la sensazione di escluderla, almeno non del tutto, dall’attività lavorativa. Certo non era a scuola, non c’erano sorrisi e benevoli pacche sulle spalle quotidiane, ma tutto sommato andava bene così. O meglio, sarebbe andata bene così, se in quel borghese studio del centro cittadino non avesse lavorato anche Michela. Giulia ricorda ancora perfettamente lo sguardo diffidente e curioso con cui la aveva accolta, il suo primo giorno. E quella diffidenza palese, ma anche quella malcelata curiosità sarebbero stati i punti fermi del loro rapporto negli anni successivi. Michela, da 10 anni in quello studio, era una donna alta, elegante come figura, dai lineamenti del viso duri, che la facevano sembrare più grande della sua età , soprattutto nei suoi momenti di collera. E Michela si arrabbiava spesso, con tutti, avvocati compresi. Soprattutto con Giancarlo, l’avvocato con più anni di anzianità lì dentro; se lui si dimenticava qualcosa o magari la rimproverava sommessamente per il ritardo con cui lei svolgeva alcuni suoi compiti, lei non si faceva problemi di mandarlo a quel paese, a voce alta, davanti agli altri, con un eccesso di confidenza (e di maleducazione) che inizialmente aveva sorpreso parecchio Giulia. Aiutami a trascrivere questo atto, Giulia; sbrigati con quella pratica; oggi non ci siamo, Giulia; capisco che sia importante, ma non credo che tu possa prenderti quel giorno libero, Giulia. Non correva buon sangue tra loro; o meglio, semplicemente Michela la aveva presa di mira, dal primo momento in cui era entrata in quello studio. Urla, frasi sarcastiche, velati insulti, uno stillicidio di vessazioni, goccia dopo goccia, giorno dopo giorno, stavano portando Giulia all’esaurimento. Michela aveva creato un ambiente ostile, aveva alzato un muro, che Giulia non aveva le forze di sormontare, e anzi ne era schiacciata. Preparami un caffè, quello almeno lo sai fare? E mi raccomando, due cucchiaini di zucchero. Giulia ogni mattina si metteva l’elmetto, si sedeva davanti alla scrivania e affrontava quel piccolo, odioso inferno che era diventata la sua vita in ufficio. Sopravvivere alle intemperie, una specie di naturale istinto di conservazione, che le permetteva di stare a galla. Dopo circa un anno nello studio arrivò un nuovo avvocato, giovanile di aspetto, dai capelli brizzolati; e Giulia notò subito come anche Michela nei suoi confronti nutriva una certa soggezione. Finì che Michela e il nuovo avvocato si misero insieme, ma la storia non durò che pochi mesi. E quel muro, lentamente iniziò a sgretolarsi. E forse anche Giulia, lo avrebbe rimpianto. Giulia, quel mattino vestiva di rosso; sulla scrivania aveva la borsa appoggiata, insieme ad un sacchetto di una nota profumeria. Stava svogliatamente cercando qualche idea su internet, qualche destinazione esotica per un viaggio che non avrebbe mai fatto. Cercava di darsi un tono, di fingere comunque di essere impegnata in qualcosa di serio e urgente, per sfuggire al pericolo Michela. Ormai Giulia era da circa 4 anni lì dentro, e ne erano passati circa 2 da quando Michela aveva deciso che lei sarebbe diventata la sua migliore amica. E no, non era stata un reciproco convincimento, non c’era stata nessuna evoluzione positiva nel rapporto che giustificasse questa inversione a U; era stata una scelta di Michela, punto. Dopo la fine della storia col collega, Michela era finita in un turbinìo di relazioni
La morte, che fino all’ultimo temiamo e ricusiamo, interrompe la vita, non la rapisce. Verrà un giorno che ci riporterà una seconda volta alla luce… tutte le cose che sembrano perire sono soltanto mutate. (Seneca, La dottrina morale) Satollità di Samantha Tortora Milano, Stazione Centrale, ore 8;35. Domenica. Tiro le ultime boccate alla sigaretta, la butto sulle rotaie e a passo veloce arrivo sul binario due schivando uomini d’affari, lacrime d’addio e trolley di giapponesi che vanno veloci come treni. Il cielo azzurro è l’unica macchia di colore in fondo al grigiore della galleria, dei pilastri e delle volte in ferro nero. Eccolo lì, rosso e grigio, puntuale, in attesa dei suoi passeggeri. Sembra dire guardate come sono imponente, sono il più fiero di tutti. Mi ricorda l’astronave di Star Wars del Luna Park, solo molto più grossa; portami via, a 400 km all’ora, più veloci del vento. Salgo gli scalini, sperando di trovare un po’ di sollievo nell’aria condizionata. Il mio posto è l’ A3. A3, A3… ripeto nella mente lungo gli stretti corridoi, rendendomi conto di essere salita dalla parte sbagliata del treno. Mi fermo al vagone ristorante per un caffè, stamattina non sono neanche riuscita a berlo. Ora sono più reattiva, continuo la mia ricerca. A 7, A 5, A 2, eccolo A3. Mi lascio cadere sul sedile, con la valigia ancora sulle gambe, non è pesante e posso tenerla come scudo verso gli altri. Stringo la maniglia forte con entrambe le mani e chiudo gli occhi. Mi Chiamo Allegra Izzo, ho 19 anni e sto tornando a casa, l’arrivo è previsto alle 12:41, in tempo per il pranzo organizzato da papà. Bologna, ore 9:40. Mi sto godendo la pelle della poltrona, sono allergica a quelle in tessuto, mi repellono coi loro rifiuti dei passeggeri precedenti: forfora e pidocchi, sudore, pellicine, unghie, residui di cibo, anche sangue che esce da minuscoli tagli. La pelle è figa e igienica, anche nei ristoranti dovrebbero eliminare le sedie in tessuto. Intorno a me ci sono altre sette poltrone, tutte occupate ma separate da una giusta distanza che ti permette di evitare di parlare coi compagni di viaggio. Sistemo la valigia sopra di me e sfilo dalla borsa il libro che mi ha regalato Andrea, La dottrina morale di Seneca. Non lo ricordo, nonostante la maturità classica di Giugno, o meglio, non avevo notato la saggezza e la contemporaneità che la caratterizza. Me l’ha fatto scoprire Andrea, dopo che facevamo l’amore io abbracciavo il cuscino e lui leggeva e traduceva dal latino, il libro appoggiato sulle mie natiche. Inizio a leggere, inciampo nelle frasi su cui discutevamo, penso a noi. Il suo modo di scoparmi, le sue fissazioni sull’ideale femminile e la sua “intellighenzia harvardiana” hanno iniziato a darmi l’angoscia. Maledetto schiavo della libidine. Provo a dormire. Firenze, ore 10:48. L’andamento soporifero del treno è cessato e mi sveglio di soprassalto con un filo di saliva che bagna il mio mento. Sono sudata, i miei capelli lunghi e biondi scaldano come una coperta, ma hanno il vantaggio di coprirmi le orecchie a sventola. Mi osservo nello specchietto attaccato sulla parete alla mia sinistra, tocco il mio viso con l’indice e il medio: la fronte spaziosa, le sopracciglia dritte e sottili, le guance rosse, il girocollo di perle e zaffiri che è il secondo regalo di Andrea. Non è proprio il mio genere, ma lui vuole che lo diventi. Maledetto schiavo dell’ambizione. Il mio cuore batte troppo veloce. Roma, ore 11:45. Andrea avrà aperto gli occhi da poco, forse è sotto la doccia che canta col suo inglese impeccabile e fastidiosamente americano. Senza fare colazione pranzerà con le polpette che ho cucinato ieri sera, permettendomi però una piccola variazione: ho sostituito i pinoli con polvere di nocciole. Andrea le adora, ma è gravemente e meravigliosamente allergico alle nocciole. Non dimenticherò mai quando gli ho spalmato una manata di Nutella sulla faccia, nel giro di pochi minuti il suo viso è diventato gonfio e rosso. Il collasso circolatorio e la morte avverranno nel giro di pochi minuti. Shock anafilattico. Nessuno sentirà la tua mancanza Andrea, maledetto narciso insicuro. Ti ho fatto un favore, e ti ho dato la possibilità di giocare un’altra partita. Io sono innocente e la mia coscienza è limpida.
Sai, non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, ama il prossimo tuo come te stesso a meno che non sia diverso da te. E che senso ha? Penso di averla inventata l’ultima parte. Perché la prima chi l’ha detta? Un tizio. Il tizio di Francesca Refano Quale tizio? Non so bene. Pare fosse un mezzo uomo e mezzo fantasma. Era trasparente? Non si vedeva? No, si vedeva. E faceva vedere anche chi non vedeva… E come è possibile? … E camminare chi non poteva. MA DAI! E chi era morto, pensa un po’, non lo era! E cos’era? Resuscitato. Si vabbè! Comunque morti o vivi, zoppi o cecati, pare che questo tizio sopportasse tutti ma non i diversi. Un uomo morto è uguale al vivo? No ormai è morto. Ma questo tizio si può sapere chi è? Non so, ha 100 nomi… forse 3… Anche lui è parecchio confuso. Bipolare? Può essere. E a te chi l’ha detto? Un altro tizio che l’ha conosciuto ma mai visto. E la fonte ti sembrava sicura? Che vuoi che ti dica, quel che mi ha detto riferisco. E nessuno l’ha mai visto? No! E come è possibile? Cosa?! Che questo tizio fa vedere i cecati, camminare gli zoppi ma nessuno l’ha mai visto! Ormai penso sia morto. Ma non è mezzo fantasma? Sì! E i fantasmi muoiono? No… E allora vedi!? Io si! Non in quel senso, dai. Non è mai esistito. Ma se ci sono le foto! E chi le ha scattate? Nessuno. Sono ritratti di un uomo che lo vide, credo. Non è possibile! Vabbè, ti dicevo, non gli piacciono i diversi. Perché? Perché non sono uguali. Uguali a cosa? Alla normalità. E cos’è la normalità? Noi. Sì? Forse. E ha creato confusione con i suoi millemila nomi. A chi? A quelli che si sono ammazzati. Chi si è ammazzato? L’uomo che ha sparato a una donna che aveva in braccio un figlio. Sono morti solo in due? No. Sono morti in tanti. Mi correggo: sono morti i diversi. Ma diversi per cosa? Per la pelle. Un po’ bianchi, neri, gialli e qualcuno rosso. Ah capisco… Pure perché chiamavano questo tizio con un nome diverso. Comunque, sono tutti morti. E perché? Perché il tizio con i tanti nomi ha creato confusione. E non poteva chiarire? No. Perché? Perché non è mai esistito.
La nonna non ci ha chiamate, così ce ne stiamo ancora un po’ al calduccio, pensava Teresa, mentre accarezzava i lunghi e biondi capelli della sua bambola, Lisa. Quella settimana era il turno del pomeriggio, scuola dalle 14 alle 18. Questa storia delle settimane alternate era un po’ una rottura, ma la scuola era appena iniziata, era divertente andare in classe a disegnare, giocare, scrivere e la maestra era brava, anche se l’altra volta l’aveva messa in punizione insieme a Marta, la sua compagna di banco, perché si erano rincorse per la classe durante la lezione. Marta aveva pianto, ma lei no. C’era rimasta parecchio male, ma l’umiliazione del pianto, no. Mentre si stiracchiava, indecisa se alzarsi o aspettare ancora un po’, pensò che avrebbe dovuto invitare Monica a giocare a casa sua. La casa delle bambole di Silvia Conte Monica era la figlia del dentista del secondo piano e la settimana precedente sua mamma aveva chiesto alla mamma di Teresa se le due bambine potevano giocare insieme. Quindi lei era scesa per l’ora della merenda nella casa del dottor Olivieri, che faceva anche studio, perché prendeva tutto il piano. Al numero otto entravi per andare dal dentista e al numero 9, andavi a casa loro. Ad aspettarla c’erano la signora Carla e Monica, che ha la sua stessa età, ma che va alla scuola privata, la vengono a prendere tutte le mattine con un pulmino e non deve fare i turni, per l’improvviso boom demografico e la mancanza di edifici scolastici nel quartiere. Le due mamme avevano insistito molto per questa merenda insieme, la famiglia Olivieri si era trasferita da meno di un anno e Monica non aveva molti amici nel circondario. D’altro canto nemmeno che Teresa era libera di uscire e di vedere le sue compagne di classe a suo piacimento e visto che la mamma lavorava tutto il giorno e la nonna non poteva scorazzarla avanti indietro, un’amica nel palazzo le faceva comodo. Il giorno della merenda, lei era scesa verso le quattro e subito era stata introdotta nella cameretta dell’altra bimba, che non doveva dividere con sua sorella, perché aveva un fratello maggiore di due anni, che aveva la sua, di camera. Nella stanza, molto ordinata, troneggiava una casa delle bambole a tre piani, con delle bellissime finestre in legno di colore rosa, nelle quali era intarsiato un cuore. Ogni stanza era perfettamente arredata, salotto, cucina, bagno due camere da letto e una stanza dei giochi in soffitta. E per giunta Monica possedeva l’intera serie delle “Lucie”, come le chiamavano Teresa e sua sorella: Lisa, Lucia, Lola e Laura, mentre loro ne avevano solo due, una a testa. Avevano iniziato a giocare con quella casa e le sue abitanti, ma Teresa si era sentita una traditrice, perché la sua Lisa era rimasta a casa, da sola, perché la nonna le aveva detto: “Scordati di fare avanti e indietro da una casa all’altra e fare chiasso per le scale”. Quindi aveva deciso di prendere Lola, quella con i capelli rossi, in segno di rispetto per la sua Lisa. Il pomeriggio era trascorso piacevolmente, anche se Monica era un po’ dispotica e non le lasciava prendere grandi iniziative sulla casa delle bambole, che per giocare in due era anche un po’ scomoda, a suo parere. Verso le cinque avevano fatto merenda con pane e Nutella. Lei era stata zitta, come le era stato insegnato, e lo aveva mangiato, anche se la cioccolata non le piaceva molto, come tutti i cibi troppo colorati. Avrebbe preferito pane burro e zucchero. Nel tardo pomeriggio era passata la mamma a prenderla, con grandi ringraziamenti. Le due bambine si erano salutate con la promessa di passare insieme un altro pomeriggio. “Questa volta a casa nostra”, aveva aggiunto la mamma di Teresa. Poi la descrizione minuziosa dei giocattoli di Monica che Teresa aveva fatto a mamma, nonna e Caterina, sua sorella, quel fiume in piena che era quando aveva delle novità. E quindi l’idea geniale di costruire un appartamento delle bambole. Ne avevano incominciato a discutere con la sorella, di cinque anni più grande di lei e avevano convenuto che, siccome nella loro cameretta non avevano lo spazio per una casa delle bambole, che poi era anche un po’ leziosa, così aveva detto Caterina, potevano creare una serie di mobili, che avrebbero costituito l’appartamento delle Lucie. Riesumarono un piccolo armadio di legno che decisero di ridipingere di rosso e chiesero alla nonna di confezionare un nuovo piumone per il letto di Lisa, con una stoffa che si adattasse al rosso. Decisero di fare dei cuscini per fare salotto da sparpagliare su un tappetino che già utilizzavano. E poi colpo di genio: crearono dei cassettoni con le scatole dei fiammiferi svedesi, quelle che avevano gli scomparti a scorrimento, incollandole due a due o tre a tre a seconda della grandezza che desideravano ottenere. Ciascun mobiletto venne poi rifasciato di carta da pacchi, per dare l’idea del legno. La cucina era forse un po’ fuori misura per la grandezza delle Lucie, ma aveva molti accessori e avrebbero potuto fingere di prendere un tè. Per li bagno ci avrebbero pensato, e se la nonna avesse fatto loro usare l’acqua vera con lo shampoo, sarebbe bastata anche una scodella rettangolare per fare vasca. Avevano lavorato tantissimo, le due sorelle, per creare l’appartamento delle bambole, perché Teresa potesse ricambiare l’invito di Monica e poi magari invitare Marta, che si sarebbero divertite anche di più. E quel giorno, che era fuori discussione perché c’era scuola al pomeriggio, divenne il giorno. Teresa era pronta alle due meno un quarto: stivali rossi, mantellina rossa con berretto uguale, cartella rosso-blu già sulle spalle, ma poi la mamma aveva chiamato dall’ufficio. A Brignole era un gran casino: pioveva da ore con troppa intensità, si vociferava che il Bisagno potesse straripare. Meglio non andare a scuola, troppo rischioso. E la nonna l’aveva convinta a restare a casa, anche se lei voleva andare a tutti i costi. Le piaceva la scuola e saltare nelle pozzanghere lungo
Ogni giorno è un passo in più che facciamo dandoci la schiena. Ho rinunciato a tutto per lui, ai miei sogni, alla mia famiglia, alla carriera. Ma ero così innamorata e mi sembrava che non ci fosse nulla di più affascinante delle sue fotografie. Shirley di Giulia Barone Una volta ho pianto vedendo gli scatti fatti durante una giornata trascorsa insieme al mare un pomeriggio d’inverno. Avevamo fatto una passeggiata, poi ci eravamo riparati dietro ad una roccia e distesi sul plaid ci eravamo addormentati. Dopo un po’ lui si era svegliato e aveva iniziato a fotografarmi mentre dormivo, mentre mi stavo svegliando e non aveva smesso neanche quando da seduta lo guardavo con la mano a visiera per proteggermi gli occhi dal sole. Erano immagini incredibili, non sembravo neppure io tanto ero bella, ma lui diceva di vedermi così. Era andato tutto bene fino a quando avevo desiderato un bambino. Lui non voleva figli, diceva che non se la sentiva, i suoi genitori erano morti in un incidente stradale quando aveva sette anni e il dolore provato era stato così violento da convincerlo a non volere figli per paura di poterlo arrecare lui stesso. Ne avevamo discusso per sere intere, per giorni e settimane ma lui era irremovibile. Ci avevo rinunciato, ma lui aveva già smesso di toccarmi, non mi cercava più, forse per paura di essere ingannato. Ricordo una mattina, era estate, lui si era alzato per andare a fare una passeggiata. Quando era tornato, io ero ancora a letto, stavo leggendo ma sentendo la chiave nella toppa avevo fatto finta di dormire e, girata di schiena, avevo lasciata scoperta parte del mio corpo nudo. Lui era entrato in camera, si era avvicinato ma aveva solamente riposto sul comodino il libro che avevo lasciato tra le lenzuola. Mi ero immaginata una vita diversa. Io che avevo così tanti sogni, ho scelto di dare più importanza al suo lavoro perché mi sembrava giusto: io ero solo una semplice aspirante attrice. Quanti provini ho fatto prima di sposarmi; passavo le giornate a leggere i copioni, a provare e riprovare i dialoghi che dovevo presentare, viaggiavo sola recandomi nelle città dove stavano girando un film e così ho fatto la comparsa in vari lungometraggi, una volta sono riuscita ad entrare nel corpo di ballo di un musical. Ma Carl diceva che non ne valeva la pena insistere, era uno spreco di denaro ed energie. E così mi sono dedicata a lui, seguendolo nei suoi viaggi di lavoro perché in fin dei conti aveva ragione. Ora non è più l’uomo di cui mi sono innamorata, è cambiato, non accetta neanche più ingaggi che lo potrebbero allontanare da casa. Ogni fine settimana ripete sempre lo stesso rituale. Si alza presto, va a fare colazione al bar sotto casa, compra il giornale e una stecca di sigarette che poi fuma seduto sulle scale del giardino di casa. Si procura ciò che gli serve per vivere due giorni barricato. Dice che è l’unico modo per rilassarsi, ma io lo so che ha attacchi di panico. In questo rito ci sono anch’io ovviamente, lo rassicura avermi vicino, sono come uno i punti di riferimento della casa che riconosciamo quando va via la luce e camminiamo a tastoni. Sono come il pianoforte nell’angolo del salotto o la cassettiera bombata che c’è in ingresso sulla quale appoggia le chiavi quando entra in casa. Ma io mi sento soffocare. Mi sembra di non vivere più. Quando abbiamo smesso di viaggiare ho trovato lavoro come maschera in un cinema di città, è veramente la fine più triste per un’attrice, ma almeno è un lavoro che mi permette di uscire nei weekend, altrimenti impazzirei. Il fatto è che lo amo ancora. Un paio di anni fa è successa una cosa che mi ha fatto credere che avremmo potuto ricominciare. Aveva accettato un lavoro per un’agenzia pubblicitaria, doveva fare delle fotografie artistiche per un elegante albergo di Manhattan, mi aveva chiesto di fare da modella ed era uscito un capolavoro. Mentre mi muovevo intorno al letto di quella camera d’albergo mi sentivo sensuale, ammiccavo all’obiettivo e i suoi stimoli a cambiare posa mi eccitavano. Sono sicura che anche lui abbia sentito quell’elettricità. A lavoro finito tutto era tornato come prima. Non so se me la sento di continuare questa farsa. La vita è davvero buffa, il ruolo da protagonista che ho sempre desiderato interpretare è stato nella commedia drammatica della mia vita.