di Annalisa Soldà

 

Oggi è una giornata di marzo che ricorda ancora l’inverno.

Lui è appena uscito. In casa è rimasto l’odore del suo dopobarba.

Apro le persiane della camera da letto, cigolano. Mi affaccio e sento gli otto rintocchi della campana e il lamento dei freni degli autobus. Guardo in su, l’azzurro del cielo è interrotto solo dal bianco di un gabbiano.

Stringo la vestaglia attorno al corpo e torno in cucina al mio caffè. Sono seduta al tavolo, curva e con le gambe strette, non ho ancora acceso i caloriferi. Guardo l’orchidea bianca sulla credenza e conto per la prima volta i suoi fiori, sono sette. La sposto al centro del tavolo, per ricordarmi che c’è.

Separo i bianchi dai colorati e carico la lavatrice, sparecchio, lavo le stoviglie, mi guardo in giro e vedo della polvere sul frigo e sulle mensole che ieri non c’era o che, forse, non avevo visto.

Apro il freezer e decido cosa scongelare. Vada per un trancio di merluzzo.

Mi siedo alla scrivania e accendo il computer, controllo le email, faccio il punto della situazione.

 

Sono le 10.30, mi dirigo verso l’hotel. Lo trovo facilmente, è in un palazzo d’epoca. Salgo le scale sino al terzo piano, alla reception c’è il titolare. Esordisco con un “Buongiorno” che viene cordialmente contraccambiato. L’uomo ha l’aria di chi è di buonumore per dovere.

“Ho chiamato ieri per fare una prenotazione, ho parlato con una sua collega.” Continuo io.

Lui mi fa domande: il nome dell’ospite, le date.

Gli spiego che l’ospite è un insegnante della scuola di scrittura a cui sono iscritta e che ieri ho inviato un’email.

Mi dice che aveva incaricato un suo dipendente di rispondermi  e si affretta a cercare fra le email inviate.

“Hmm, vediamo se devo fare strage di dipendenti.” Si gratta la testa, si aggiusta gli occhiali mentre controlla la cartella Posta Inviata.

“Vediamo… nessuna email indirizzata a lei. Oggi mi sento cattivo, lei cosa dice devo essere severo con i miei dipendenti?” Intanto scrive.

“Credo che si debba essere clementi. Capita a tutti di sbagliare”.  Rispondo con un cliché e mi levo d’impaccio.

“A posto così, le ho confermato personalmente la prenotazione, controlli fra le sue email.”

Ringrazio, saluto e vado via.

 

Ore 11.00, arrivo al supermercato. Le corsie si percorrono velocemente, ci sono poche persone che fanno la spesa a quest’ora, per lo più pensionati, prendo dalla borsa il volantino dove avevo annotato le offerte del mese e inizio la caccia al tesoro.

Il carello si sta riempiendo pericolosamente, cerco di calcolare mentalmente il peso totale di ciò che ho scelto e aggiungo solo poche cose. Pago ed esco. Cammino facendo attenzione a mantenere la schiena  dritta per distribuire uniformemente il peso delle borse su entrambe le spalle e cercando di ricordare a che ora passerà il prossimo 35.

Passo accanto all’entrata del teatro diretta verso la fermata dell’autobus. Sotto il porticato, seduto sui gradini c’è un uomo che suona la chitarra. Ha il cappuccio della giacca sulla testa ed è curvo sulle corde. Le note mettono in disordine i miei pensieri e mi costringono a fermarmi ad ascoltarlo. Il brano ha il ritmo della musica Andalusa, è una musica veloce, malinconica e calda. Lui termina il brano, io cerco gli spiccioli e li lascio cadere nel piatto. Lui mi guarda e io gli dico: “Bravo.” Inizia un nuovo brano. Io appoggio le borse a terra e resto in ascolto. Terminata anche questa esecuzione, mi fissa in silenzio, allora gli chiedo:

“È un insegnate di musica?”

“No. Facevo il camionista, ora sono rimasto senza lavoro. Ho sempre amato suonare e mi sono detto perchè non provare a fare l’artista di strada.”

Non dice più nulla, allora io incalzo: “Suona bene, è molto bravo.”

L’uomo si scosta dalla testa il capuccio. Mi racconta che ha due figli e che è un esodato, io gli tendo la mano, gli dico il mio nome e gli auguro una buona giornata. Mentre sto per sollevare le borse mi fermo un istante e gli chiedo: “Come si intitola il brano che stava suonando quando sono arrivata?”

“Ah, questo?” Accenna qualche nota e poi sorride come se un ricordo piacevole gli avesse appena riempito la mente: “Si chiama Recuerdos de la Alhambra”.

 

A casa è la routine: padella, olio, merluzzo. Mangio, sparecchio, pulisco piatti e fornelli, decido cosa cucinare per cena. Ritiro la biancheria asciutta, stendo quella bagnata. Guardo di nuovo la polvere sul frigo e le mensole e penso che la leverò domani.

Ripasso il Simple Past e il Present Perfect che in italiano traducono entrambi il passato prossimo.

 

Sono le 17.30 scendo le scale del mio palazzo. Al piano terra incontro la ragazza che si è trasferita qui il mese scorso, mentre esce di casa con un rastrello, una pala e una scatola di semi. Credo che sia Olandese e spero che abbia intenzione di coltivare dei tulipani nel suo giardino. La saluto e suono il campanello dell’interno accanto al suo, mi apre la porta Alessandro.

“Ciao”. Mi dice e si scosta per farmi entrare.

“Ciao Ale, come è andato oggi il compito in classe di matematica?”. Gli chiedo mentre sono già nell’ingresso di casa sua.

“Mah. Difficile. Vedremo.” Chiude la porta con una leggera spinta.

“Hai già iniziato a fare gli esercizi di inglese?” Continuo seguendolo lungo il corridoio.

“No. Ti stavo aspettando per iniziare”.

Sua madre è in cucina, la saluto, lei mi chiede se può lasciare la TV accesa, le risponde suo figlio, borbottandole di abbassare il volume e chiudendo la porta.

Siamo nella sua stanza, mi siedo accanto a lui, alla sua scrivania, e iniziamo. Dopo il primo esercizio mi è chiaro che è necessario ritornare sulla grammatica.

Quest’anno, mentre io percepivo il passare delle stagioni attraverso i cambi di guardaroba, Alessandro si è allungato, ha cambiato voce e ha iniziato a farsi la barba.

Dopo due ore mi congedo: “Ci vediamo martedì prossimo.”

 

Sono davanti alla porta di casa mia, sento il rumore dei suoi passi, capisco che lui è tornato da lavoro, inserisco la chiave nella toppa e lui mi viene incontro, mi bacia e mi dice che ha fame.

Vado in cucina, cerco una pentola piuttosto alta e il coperchio corrispondente.

 

Dopo cena, lui lava le stoviglie in cucina, io sto controllando le email.

Fra la posta in arrivo c’è la risposta del titolare del hotel. Leggo la sua email, il nome della persona a cui si rivolge non è il mio, anche se ci assomiglia molto, e quello dell’ospite non corrisponde a quello che gli avevo fornito. Gli rispondo facendogli notare le sviste.

Capita a tutti di sbagliare.

Mi avvolgo le spalle nel plaid e chiudo le persiane della finestra della camera da letto mentre rivaluto l’ancestrale saggezza dei cliché.

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