Torna dopo un anno il Laboratorio Officina Ragazzi, dedicato ai giovanissimi che vogliono avvicinarsi presto (o si sono già avvicinati prestissimo) al mondo della scrittura. A tenere il corso sarò proprio io, e ci incontreremo sei volte (ogni martedì dal 17 marzo al 21 aprile, dalle 17:00 alle 18:00 alla sede di Officina Letteraria, in Via Cairoli, 4) per parlare di letture rigorosamente “extrascolastiche”, di cosa vuol dire fare lo scrittore oggi, di preparazione di testi per il web e, soprattutto, per scrivere insieme. Il costo complessivo dei sei incontri è di 80 euro. Il Laboratorio è destinato, quest’anno, a ragazzi giovanissimi: dagli 11 ai 16 anni. Il Laboratorio è destinato, quest’anno, a ragazzi giovanissimi: dagli 11 ai 16 anni. Mi dicono dalla regia che il numero massimo di partecipanti è già stato quasi raggiunto, quindi se volete unirvi a noi affrettatevi a contattare Officina Letteraria. Abbiamo deciso di destinare il corso a un “piccolo gruppo” per seguire meglio i progetti dei ragazzi. Per qualsiasi informazione più specifica sul corso, è possibile mandare una mail all’indirizzo info@officinaletteraria.com.
Perché infilarsi nella tana di Coniglio Bianco di Anselmo Roveda. Scrivere è un piacere, certo. Ma è anche un mestiere. Da fare bene, come ogni mestiere. Mal tollereremmo un idraulico, un panificatore o un elettrauto improvvisati, dopo esserci rivolti a loro non dovremmo avere più sgocciolii nell’acquaio, assaggiare pane sciapo, restare fermi su una piazzola dell’autostrada. Anzi, dopo il loro intervento dovremmo trarre qualche soddisfazione: la quiete terminato lo stillicidio, il piacere di un buon pane, un’andatura sicura e fluida dell’autovettura. Nello stesso modo accostandoci alle pagine scritte da un autore dovremmo poter trarre soddisfazione: l’incontro con una storia dotata, intimamente e universalmente, di senso (anche il fantastico e il surreale lo hanno) inteso come coerenza, efficacia, piacevolezza, domanda. Non necessariamente risposta, certo domanda. E il senso della scrittura risiede non tanto, o non solo, nella storia da raccontare ma nella pertinenza della lingua scelta per raccontarla. E il senso della scrittura risiede non tanto, o non solo, nella storia da raccontare ma nella pertinenza della lingua scelta per raccontarla. Storie belle da raccontare ne è pieno il mondo, abbondano nelle teste, nei cassetti e negli hard disk degli scrittori o aspiranti tali, in quelli dei professionisti come in quelli degli inediti. Le belle storie, le buone idee, diventano buoni libri quando si sostanziano nella scrittura. Una scrittura che non è solo lingua; qui intesa come quella che apprendiamo da bambini con fatica, seppur inconsapevoli, e usiamo da adulti, ormai abbandonata la fatica, spesso, ahimè, altrettanto inconsapevoli. La lingua scritta è altro, è opportuno esercizio di fatica, di lavoro. Da auspicarsi leggero e piacevole, ma pur sempre lavoro. Ingeborg Bachman in Letteratura come utopia (Adelphi 1993) scrive: “Noi tutti crediamo di conoscerla, la lingua, e, infatti, l’adoperiamo. Non così lo scrittore, lui, lui soltanto non può adoperarla”. “Noi tutti crediamo di conoscerla, la lingua, e, infatti, l’adoperiamo. Non così lo scrittore, lui, lui soltanto non può adoperarla” Dovrà recuperarla, “riportarla in vita seguendo un rituale”, giusta e pertinente per la storia che vuole raccontare, per il mondo che vuole rappresentare. Antonio Pennacchi, in occasione della riedizione di Mammut (Donzelli 1994, ora Mondadori 2011), ha più volte raccontato come quel suo primo libro, scritto in un anno, abbia impiegato oltre cinquanta rifiuti, otto anni di riscritture e una limatura di quasi duecento pagine prima di trovare collocazione e fortuna. Non era il mondo editoriale a complottare alle spalle dell’esordiente senza blasone o l’incuria di editor distratti e poco scrupolosi o ancora lo stigma dello scrittore o più semplicemente un’iniqua sfortuna ad agire; no, il testo, dice oggi Pennacchi, aveva bisogno di diventare altro, oltre l’idea narrativa doveva farsi scrittura, libro, letteratura. Il ben più acclamato Jack London di rifiuti ne ricevette parecchi. Quando si parla di letteratura per ragazzi, poi la faccenda si fa ancora più spinosa. Le questioni di pedagogia e psicologia dell’età evolutiva, quando non di didattica e morale, invadono, non prive di qualche legittimità, il campo. In agguato – e chi ha esperienza di redazioni lo sa bene – ci sono edificanti racconti della nonna, vari ammaestramenti, mielose storielle sui buoni sentimenti, coniglietti paffuti e fatine eteree, scritture a tesi (dove il “male” non è la tesi ma la poca cura che viene posta nel condurla a esito, come se la tesi fosse sufficiente in sé per fare letteratura). Toccherà allora scomodare l’abusata citazione di Dino Buzzati: “Scrivere per ragazzi è come scrivere per gli altri, solo più difficile”. La difficoltà inoltre si articola e moltiplica. Oltre al far letteratura in prosa o in poesia, qui, nell’editoria per ragazzi, incontriamo anche un linguaggio altro – quello che investe i picture book – che mette in gioco tutta la sfera progettuale del libro, l’interazione in interdipendenza di testo e immagini. Ma fermiamoci, per ora, alla scrittura; non alla sinergia con l’illustrazione. La scrittura dei picture book è altro, prevede processi creativi e compositivi indipendenti e propri. La difficoltà, nel ragionare intorno a scrittura e ragazzi, sembra inoltre stare nel destinatario. Altri rischi sono in agguato, questa volta proprio linguistici. Una tendenza a semplificare non verso chiarezza ma verso banalizzazione, un accostarsi ai bambini “abbassandosi” e non “calibrando”, che rischia di coinvolgere anche professionisti della scrittura quando scelgono un interlocutore infantile. Minacciosi e inopportuni spuntano discorsi diretti al lettore, “cari piccoli amici…”, di ottocentesca memoria. Lo scrivere per bambini non è scimmiottare una nostra lontana e vaga idea d’infanzia tutta colorata e dolce, è invece raccontare buone storie in una buona lingua, pertinente appunto. Raccontare buone storie in una buona lingua, pertinente appunto. Non parlare una lingua-bambina (esiste poi? E davvero è così sciocchina come certi adulti immaginano?), ma essere capaci di assumere punti di vista, questi sì rintracciabili nella memoria infantile di ciascuno. Beatrice Masini, in un’interessante intervista pubblica sul n. 186 (nov. 2010) della rivista francese “Nous voulons lire!”, dice: “Sono diventata un’autrice per l’infanzia perché mi sono resa conto che la maggior parte delle storie che scrivevo – allora avevo ventanni – avevano come eroi dei bambini e dei ragazzi. Si trovano bambini e ragazzi anche nella letteratura per adulti, ma la differenza, credo, è il punto di vista: se tu assumi il punto di vista d’un bambino o d’un ragazzo e ti poni la questione di calibrare la scrittura sulla sua voce, sul suo sguardo sul mondo, allora scrivi per ragazzi”. Apparentemente semplice. Schietto e vero, convince. È in questa semplicità, ponderata e linguisticamente laboriosa, che si risolve quella maggior difficoltà espressa da Buzzati. La riflessione sullo scrivere per i bambini, ma anche con i bambini, sul fare poesia con loro, sul fare loro scrivere – e qui oltre il mestiere, rientrano prepotenti anche le dimensioni, care agli scrittori, della creatività e dell’espressione – vive oggi un buon momento. Non mancano le occasioni per approfondire visioni e metodi. Ricordando sempre che fantasia, estro, talento e creatività da soli contano poco davvero, vanno piuttosto coltivati e accompagnati con una ricca biblioteca di letture, una solida cassetta degli attrezzi, qualche trucco del mestiere, tanto lavoro, una buona