“No, non scrivo favole”. E non ho occhi a cuoricino. Luoghi comuni e letteratura per l’infanzia di Anselmo Roveda Prima di sentirmi dire che sono uno scrittore dovrete durare fatica. Anche per i miei vicini di casa è scoperta recente. Di solito ci giro intorno, non sono uno di quelli che si presenta come ‘scrittore’, anche se i libri sono, ormai da parecchio, parte rilevante del mio mestiere letterario – ché poi si fa pure cronaca e critica letteraria, traduzioni, formazioni, conferenze… I primi tempi evitavo solo per timidezza. E timore. Temevo che vista la assai nutrita compagnia circolante di autoproclamati scrittori, in ragione magari di un solo titolo variamente pubblicato (self, stamperia sotto casa, EPA, minuscoli editori mai o mal distribuiti…), si potesse scambiare l’affermazione per millanteria, vanteria, mancato senso delle proporzioni o, peggio, della realtà. Poi si cresce, i titoli si moltiplicano, le occasioni pubbliche ti smascherano e così ho smesso di negarlo. Certo, ci giro intorno un po’. Ma lo dico. Mi dilungo e infine, in una sorta di coming out, lo dico: “Sono uno scrittore”. E la cosa piace, un po’ ovunque, perfino nei baracci che amo frequentare e nelle sale operatorie che mi è toccato visitare di recente. Ora però c’è un problema, sia con l’avventore da “gotti” sia con il chirurgo ortopedico. Le domande seguenti, infatti, sono “quali libri hai scritto” e “quale tipo di cose scrivi”. Ecco, tanto più avendo presente i livelli di lettura nazionali, citare un proprio titolo non funziona, a meno che, a seconda dei gusti, non siate l’autore di Gomorra, Tre metri sopra la cielo, La strada verso casa, Seta o Il cane di terracotta. Sul “cosa scrivi” è più facile e difficile. Evito di dire che credo e pratico l’idea di ‘autore totale’, come dice Andruetto. E cioè che scrivo ‘di tutto’, anche prendendomi il rischio di non essere efficace in ‘tutto’ allo stesso modo. Dico direttamente che scrivo ‘di tutto’. Perché le storie, spiego, prendono strade e forme diverse: alcune cose riesco a dirle solo in poesia (e in genovese); altre solo in forma rappresentabile ad alta voce, magari in radio; altre hanno forma narrativa più tradizionale, racconti, talvolta con sfumature nere o fantascientifiche; altre storie ancora, e sono la più parte del pubblicato, mi viene voglia di accostarle a lettori giovani o giovanissimi. Anche qui declinando le forme: dal testo per l’albo illustrato, al soggetto per fumetti, alla narrativa. Insomma, scrivo soprattutto “per bambini e ragazzi”. Ecco, l’ho detto. L’interlocutore, primario e/o alcolista, di solito dissimula la delusione con un sorriso: troppo articolata la risposta per dirgli, alla fin fine, che scrivo per mocciosi e brufolosi. Poi come in un’illuminazione, sinceramente entusiasta, aggiunge: «Ah! Che bello! Scrivi favole». Ecco, no. Non scrivo favole. Le favole sono una forma ben specifica della narrazione, fin dagli antichi, e a dirlo tutta, al di là dell’ampia proposizione a ricaduta sul pubblico dei bambini, non sono esattamente un genere letterario dedicato in modo esclusivo all’infanzia, anzi. Ad ogni buon conto, sbirciando alla voce favola nell’Enciclopedia Treccani (disponibile anche online) troverete: “Breve narrazione per lo più in versi. Quando si parla di f. come genere letterario, ci si riferisce comunemente a quella i cui caratteri fondamentali furono segnati già da Esopo e universalmente diffusi da Fedro: essenziale è che essa racchiuda una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica e che vi agiscano (a volte insieme a uomini e dei) animali o esseri inanimati, sempre però tipizzazioni e quasi stilizzazioni di virtù e di vizi umani”. Appunto. Non ho nessuna verità morale o saggezza pratica da propugnare. Non rappresento di solito nelle mie narrazioni bestie; e tanto meno, qualora le usassi, le caricherei allegoricamente di vizi e umane virtù. Mi è capitato di rinarrare favole e fiabe, ma questo è un’altro discorso, anzi due (e già: oltre al tema della riscrittura, bisognerebbe pure mettersi d’accordo su cosa sono le fiabe; chi è stato al corso di Officina me ne ha sentito parlare). Io faccio semplicemente letteratura, che diventa per l’infanzia o per i ragazzi quando incontra soprattutto lettori di quelle età. Racconto, di solito, storie di uomini e donne, di diverse età, che si muovono in un tempo e in un ambiente, talvolta reali talaltra fantastici. E sebbene non abbia verità morali o saggezze ad orientare la mia opera, sono costituto come ogni autore (ed essere umano) da esperienze e desideri capaci di ricomporsi in una visione del mondo e in un sistema di valori. La scrittura di ciascuno, così come ogni azione umana (autori e no), trae senso, forza e peculiarità proprio da questi elementi. È quello che cerchiamo come lettori. Quindi, certo, dentro la letteratura per l’infanzia troverete visioni del mondo, ma non diversamente che in tutta la letteratura e sicuramente non ridotte a schematismi moraleggianti. Almeno nella buona letteratura per l’infanzia; delle cose di poco conto è inutile dire (e quelle abbondano anche nelle altre forme di letteratura). In breve: non scrivo favole. E a dirla tutta detesto le storielle edificanti, a maggior ragione con animali che sanno perfettamente se stare dalla parte del bene o del male. C’è però in agguato un’altra conseguenza sociale nell’aver affermato di scrivere per bambini e ragazzi. Insidiosa, scivolosa. E già, perché il nostro interlocutore, quale che sia la sua cultura, di solito ha una seconda prepotente inferenza. Infatti, oltre a farsi convinto che tu scriva favole, riterrà immediatamente che tu sia bravo, nel senso di buono: dal cuore gonfio di buoni sentimenti e dalla testa piena di leggeri lineari corretti pensieri. Una persona con una vita leggiadra e colorata come immagina siano (e per fortuna non sono) le illustrazioni per bambini. Del resto – pensa, in vasta compagnia, il nostro interlocutore – chi si occupa di bambini, fosse anche solo per scrivere storie loro dedicate, è sicuramente una persona buona, semplice, forse anch’essa infantile, libera dalle preoccupazioni e dalle miserie del mondo adulto. Spiace dirlo, ma oltre a non scrivere favole non sono neppure buono. Chi scrive per bambini fa