Leggere la memoria

Secondo gli ultimi censimenti, in Germania ci sono dai 67 ai 68 milioni di abitanti e, quindi, 34 milioni di uomini in cifra tonda. Di conseguenza, abbiamo circa 20 milioni di uomini capaci di procreare (…). Se ammetto che ci sono da uno a due milioni di omosessuali, vuol dire che il 7 oppure l’8 o addirittura il 10 % degli uomini sono omosessuali. Se la situazione non cambia, il nostro popolo sarà annientato da questa malattia contagiosa. (dal discorso ai generali delle SS di Heinrich Himmler, 1936) Domenica 2 febbraio 2014 (ore 16:00) Officina Letteraria sarà alla Commenda di Prè per l’evento Leggere la memoria: un reading di otto racconti, pensati e scritti sulla base di documenti e testimonianze storiche, per dare il nostro contributo al Giorno della Memoria. Questa ricorrenza internazionale, stabilita dalle Nazioni Unite nel 2005, cade ogni anno il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico. Una giornata che vuole ricordare tutte le vittime dell’Olocausto: ebrei e omosessuali, disabili, rom e sinti. Il reading si svolge nel luogo che ospita Dimenticare a memoria, mostra di arte contemporanea a cura di Arcigay Approdo. Letture a cura di Emilia Marasco ed Elena Mearini e degli scrittori di Officina Letteraria Giulia Cocchella, Andrea Fabiani, Federica Kessisoglu, Dario Manera, Ilaria Scarioni, Marta Traverso. Ingresso libero.

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La messa a fuoco di un’idea

Su Fotografie, Fotopagine e Fotocose. Un post di Giulia Cocchella. Voglio fotografare le nuvole, disse Alfred Stieglitz quasi cent’anni fa. Prese in mano la sua Graflex, si mise in posa (lui, il cielo no, si mettesse un po’ come voleva, il cielo) e da quel momento io credo che la storia della fotografia abbia preso una piega diversa. I suoi Equivalents li pubblicò in serie, accostandoli ad altre fotografie che ritraevano particolari del mondo naturale: li espose insieme a formare un discorso per immagini che fosse, appunto, equivalente al suo sentire. li espose insieme a formare un discorso per immagini Penso a questi orizzonti, a questi intenti così lontani nel tempo, quando guardo le fotografie di Patrizia Traverso. È chiaro che si potrebbe fare un lungo elenco di differenze, ma mi pare di ritrovare lo stesso desiderio di narrazione per accostamento, nonché l’intenzione di usare la fotografia non solo come documento, ma soprattutto come mezzo per ritrovare lo stupore di fronte al già visto, si tratti di un cielo di nuvole o di una palma in mezzo al deserto. “Più che fotografa pura, mi reputo assemblatrice”, dice di sé Patrizia Traverso. Le sue Fotopagine sono in effetti accostamenti di fotografie e testi letterari, poetici, filosofici: le foto, piegate come le pagine di un libro aperto, sono montate su telai di acciaio che fanno da supporto anche alle parole scritte. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: lo scatto è pur sempre l’istantanea di un momento che resta immobile. Siamo invitati a leggere immagini, a leggere parole e a sfogliare pagine che si offrono, ma non si muovono: Anche la serie Fotocose ha origine da un’idea combinatoria: oggetti e fotografia. L’oggetto evoca il ricordo e lo rafforza, gli conferisce una terza dimensione, mentre per noi che guardiamo, che non conosciamo bene la storia, genera incidenti fantastici, narrazioni supplementari. È bello lasciarsi guidare e poi perdersi in questi percorsi del ricordo e del sogno. Fotografa di parole, l’hanno definita, ma anche dell’ineffabile, del vento, di ciò che non si mette in posa. Fotografa di suggestioni dai versi di Giorgio Caproni, cui ha dedicato, insieme a Luigi Surdich, “Genova ch’è tutto dire”: un sensibile lavoro fotografico, a metà strada tra l’illustrazione nel suo significato più ampio e la poesia per immagini. Siate curiosi: andate a vedere. L’invito implicito è trovare collegamenti: fili sottili tesi tra le immagini e le parole, tra gli oggetti e le immagini, che legano ciò che vediamo a ciò che sappiamo di noi, utilizzando un processo che a pensarci bene è quello tipico della memoria. “Lo scatto è l’attimo che hai colto e che memorizza l’istante”, dice Patrizia della fotografia, “la messa a fuoco precisa di un’idea”, gli fa eco Stieglitz da lontano.

Il vestito come racconto: Officina Letteraria e Lo Spaventapasseri

Il vestito come racconto. di Emilia Marasco. Ho conosciuto Lo Spaventapasseri molti anni fa, mi sono subito appassionata alle  linee, ai tessuti, all’immagine di donna che sostiene la creatività di un’impresa totalmente al femminile. A poco a poco è diventato un atelier di riferimento e un luogo di conversazioni intelligenti intorno a un tema solo in apparenza frivolo, l’abito. Il vestito copre, nasconde e svela. Il vestito è sempre un racconto, a ogni latitudine, in ogni cultura, un racconto che passa di donna in donna, di madre in figlia. Lo Spaventapasseri ora ha un negozio anche a Berlino e fornisce i suoi pezzi quasi unici a diversi negozi di abbigliamento in tutta Italia. La pagina Facebook è sempre ricca di spunti e iniziative. Come questa: Il mio vestito, una seconda pelle. Mercoledì 30 ottobre, insieme a Lo Spaventapasseri, abbiamo organizzato la Merenda Letteraria “Il mio vestito, una seconda pelle”, con letture sull’abbigliamento femminile. L’evento è aperto al pubblico, compatibilmente con lo spazio del negozio, è rivolto in particolare alle socie di Officina Letteraria, perché da quest’anno la nostra tessera dà accesso a un piccolo sconto sui capi della collezione de Lo Spaventapasseri. Con l’occasione, sarà possibile anche fare la tessera simpatizzante di Officina Letteraria (10 euro). Evento vietato agli uomini? No, naturalmente. I soci di Officina Letteraria potranno usufruire dello sconto, Natale arriverà presto.  Soprattutto, gli uomini che amano la narrativa potranno ascoltare le letture e scoprire quante storie si nascondono tra i vestiti di un negozio come Lo Spaventapasseri.

L'altra metà del libro

L’altra metà del libro: rassegna dedicata al lettore

Scrittori e lettori, libri e memoria. Venerdì 18 apre a Palazzo Ducale di Genova la seconda edizione della rassegna L’altra metà del libro, quest’anno dedicata alla Memoria. Gli scrittori ospiti hanno in comune, con voci diverse e diverse declinazioni, la scelta di raccontare storie personali, famigliari, collettive attraverso le quali si sono confrontati con il passato, con parti di una storia più grande alla quale sentono di appartenere. Non è casuale che un festival con questo tema cominci la stessa settimana in cui a Palazzo Ducale apre il CreamCafè, luogo destinato alla creatività e all’incontro con persone che stanno perdendo o hanno perso la memoria. L’iniziativa è una sfida, si può, sul filo della memoria residua, mantenere in vita storie individuali, famigliari, collettive. I libri servono anche a questo, lo racconterà Alberto Manguel, il curatore del festival, venerdì 18 alle ore 18:00 e lo spiegheranno, con la loro voce e la loro esperienza, Emanuel Carrère, Elizabeth Strout, Melania Mazzucco, Eduardo Galeano, Lilian Thuran. Per chi vuole scrivere. Sarà interessante ascoltare Luca Formenton, editore de Il Saggiatore: sabato 19 alle 11:00 spiegherà come un testo di un autore diventa un libro per i lettori e parlerà della situazione attuale dell’editoria in Italia.

Happy Days

“ToBeOrNotToBe” di Sergio Leta

Per la prima volta, in occasione di START, Officina Letteraria collaborerà con Violabox ospitando negli spazi di Via Cairoli 4/B a Genova, la mostra di “ToBeOrNotToBe” di Sergio Leta. In questo testo critico sul ciclo di opere, Emilia Marasco propone una chiave di lettura a metà tra arti figurative e narrativa. Testo Critico di Emilia Marasco Sono in posa per la fotografia, guardano qualcuno che li guarda. Sono soli, in coppia, in gruppo. Sono vestiti con l’abito della festa, con la divisa della scuola, con il costume da bagno l’asciugamano al collo e le ciabatte di gomma. Sono seri o sorridono appena. Sono uomini, donne, bambini. Sono gli esseri umani di Sergio Leta e mi ricordano il campionario antropologico dei racconti di Raymond Carver. Il titolo shakespeariano, “ToBeOrNotToBe”, assegnato a tutto il ciclo corrisponde alla rappresentazione di uno spazio con figure e allo stesso spazio senza figure, in sequenza. Lo spazio senza figure non è tuttavia vuoto, conserva un ricordo delle presenze che, grazie a questa traccia del loro passaggio e della loro esistenza, lo hanno modificato. Quello che rimane è il segno di ciò che è stato. “Quello che rimane” è il titolo di un romanzo di Paula Fox in cui l’immobilità è incertezza e instabilità, è dubbio permanente. Rimane il bouquet della sposa, la macchina rossa a pedali del bambino, rimangono i buffi cappellini degli scolari, le sedie degli innamorati, le ciabatte dei bagnanti. Gli oggetti che, pur importanti, hanno un ruolo da comprimari nella rappresentazione con figure, sottolineatura di status o di ruolo, integrazione funzionale, in assenza degli esseri umani diventano immediatamente protagonisti, si caricano di significato simbolico, assumono forza evocativa. Li vediamo e li guardiamo con la lucidità che ci impone l’artista, constatando ciò che li rende protagonisti, la possibilità di sopravvivere agli umani di cui sono stati apparentemente fragili elementi accessori. Sono immagini di suspance quelle create da Sergio Leta, siamo portati a chiederci cosa sia accaduto tra una sequenza e l’altra, è chiaro che c’è una storia, direbbe Carver, che vuole essere raccontata. Perché il bouquet della sposa è a terra? L’ha lanciato e nessuna donna invitata lo ha raccolto? L’ha perso perché costretta a scappare insieme allo sposo e a tutti i presenti da qualcosa di terribile, da un’irruzione nel luogo del ricevimento? Cosa sarà accaduto? Due immagini immobili e in mezzo un movimento che l’artista esprime con la tensione del vuoto e dell’impaginazione rigida di uno spazio bipartito, uno spazio dialettico. Si può essere in uno spazio e, in un certo senso non esserci; si può non essere ma continuare a esserci con quello che, della nostra presenza, rimane. In un tempo malato di horror vacui, Sergio Leta analizza i momenti di sospensione e di vuoto spazio temporale. Come Carver trae spunti da un campionario di varia umanità che osserva ai fini del personale atlante di spazi e figure che appare come un lavoro in progress indispensabile alle fasi di una ricerca che, come tutte le ricerche che si rispettino, non si può prevedere se giungerà a dare risposte ma, di sicuro, continuerà a porre domande. Vai all’evento dell’inaugurazione della mostra