Nel 2018 e nel 2019 Officina Letteraria ha fornito all’ufficio Formazione della Direzione Politiche dell’Istruzione per le Nuove generazioni del Comune di Genova due corsi di formazione sulle tecniche di narrativa per il personale docente delle scuole dell’infanzia. Il primo laboratorio ha avuto l’esito di un’esperienza praticata in diverse scuole intitolata Di casa in casa, il secondo, centrato sul rapporto tra fotografia e tecniche di narrazione, ha prodotto un’esperienza intitolata La valigia del fotografo. — Di casa in casa e La valigia del fotografo sono i titoli dei due progetti dedicati ai laboratori della scuola dell’infanzia con l’obiettivo di stimolare la creatività e un interesse verso la lettura e la scrittura nei bambini in età pre-scolare. Il corso, nella sua prima fase, ha permesso alle maestre di sperimentare in prima persona forme di scrittura creativa cercando di comprendere il legame che può instaurarsi tra parole e fotografie, per poi dedicarsi alla definizione e all’organizzazione, anche pratica, dei due progetti. In che modo un’immagine può aiutarci a immaginare e, quindi, a scrivere? La risposta a questo interrogativo è stata il punto di partenza per definire i due progetti, che hanno visto coinvolti in modo diverso da un lato i bambini, le loro stesse famiglie e le insegnanti e dall’altro l’utilizzo delle fotografie e delle parole. Di casa in casa. Di casa in casa nasce dal concetto del prendersi cura. Un pupazzo giunge inaspettatamente tra le braccia della maestra che decide di condividerne la custodia con tutti i bambini della classe (e le rispettive famiglie) per poterlo coinvolgere nelle più disparate attività. Ogni settimana il pupazzo viene affidato a un bambino e alla sua famiglia, con i quali condivide ogni momento della giornata, creando un rapporto di affetto e crescita, di gioco e di responsabilità. Le attività svolte durante la permanenza a casa vengono documentate con fotografie scattate dalle famiglie o dagli stessi bimbi, con la possibilità di scrivere un diario per raccontare l’esperienza vissuta. Questo progetto si adatta a bambini di tutte le età. La valigia del fotografo. La valigia del fotografo è un progetto più complesso, che richiede una maggiore organizzazione all’insegnante e un maggior impegno ai bambini coinvolti. Si tratta di creare una valigia creativa, una specie di archivio ambulante di immagini autoprodotte da usare per creare storie. Tutto può servire per immaginare e scrivere una storia: l’interno di un frigorifero può diventare l’ambiente in cui si svolgerà la narrazione, due matite possono essere i personaggi e una carota l’elemento chiave per il colpo di scena in grado di cambiare i colori della narrazione. Viene richiesto alle famiglie di provvedere alle fotografie che l’insegnante e i bambini trasformeranno in storie durante le ore scolastiche dedicate al laboratorio. In questo caso l’obiettivo è stimolare la creatività ed esplorare la struttura della narrazione, sfruttando la possibilità di avvalersi di immagini semplici e familiari. Tutte le storie vengono raccolte insieme in quello che diventa un vero e proprio libro di favole, reso ancora più prezioso dal fatto che queste sono state inventate proprio dai bambini. Le fotografie restano invece nella valigia del fotografo, così da creare un archivio sempre più grande. Elisa e Marisa hanno portato a termine con successo entrambi i progetti e nell’incontro finale, dedicato alla restituzione di quanto avvenuto, ci hanno raccontato cose bellissime. La prima (e la più importante) è stata il riscontro positivo da parte dei bambini e delle loro famiglie che hanno reagito con entusiasmo, curiosità e fiducia. L’esperienza di Marisa. Di casa in casa è nato sotto la buona stella della bellissima storia inventata da Marisa per iniziare il viaggio del pupazzo, corredata da immagini davvero poetiche e delicate. Inutile dire che il piccolo Leo (questo il nome del pupazzo) è stato accolto con emozione da tutti i bambini, che aspettavano trepidanti di poterlo avere in custodia e poi se ne prendevano davvero cura, con il candore e i sentimenti che solo i più piccoli possiedono. Leo è stato in montagna a scoprire la neve, in lavatrice per essere lavato e pulito, è stato un compagno di nanna con cui condividere il letto e i sogni in un abbraccio ed è addirittura finito in ospedale al fianco di una piccola amica. Sono state scattate molte fotografie ed è stato scritto un diario, in cui quasi ogni resoconto si conclude ringraziando Leo per il tempo trascorso insieme. I bambini che per qualche ragione non hanno potuto tenere a casa il pupazzo, ne sono stati i custodi per una settimana a scuola, così da non perdere la bella esperienza, ma anzi, viverla ancora più intensamente. Un ottimo risultato, quindi: gratificante per l’insegnante, le famiglie e, soprattutto, per i bambini. L’esperienza di Elisa. Elisa ci ha subito stregate mostrandoci la bellissima scatola di latta a forma di macchina fotografica che ha utilizzato per realizzare La valigia del fotografo e l’incredibile quantità di fotografie prodotte dai genitori per realizzare il progetto: ambienti, oggetti e animali come spunto da cui partire per creare nuove storie, scardinando i luoghi comuni che vedono le favole piene zeppe di prìncipi, principesse e streghe cattive. Bisogna fare una menzione d’onore alla capacità di questa insegnante di spingere i bambini un po’ oltre la loro comfort zone, associando tra loro elementi insoliti per comporre le storie, “costringendoli” a immaginare liberamente, senza porre limiti al processo creativo. Sotto la sua attenta guida i bambini si sono sbizzarriti a scrivere storie divertentissime e un po’ naïf, piene di fantasia, pura espressione del loro sguardo unico sulle cose della vita. Ogni storia inizia con un riquadro bianco, nel quale ogni bambino ha disegnato la storia a modo suo, e si conclude con una fotografia delle fotografie utilizzate. Sfogliare questo libro è una gran soddisfazione, ci immaginiamo la gioia dei bambini nel poterne scorrere le pagine ogni sera prima di andare a dormire. Conclusioni. In conclusione i due progetti realizzati sembrano aver soddisfatto a pieno le aspettative di riuscita, senza sollevare particolari criticità, ma anzi, trovando nella fotografia uno strumento utile alla narrazione e alla partecipazione, in grado
di Silvia Conte. Un piacere tutto particolare deriva dal frugare tra i libri usati. Sposti delle piccole pile, estrai un volume e te lo rigiri tra le mani, compiaciuto. È come aprire una cassapanca in soffitta e sperare di trovare un tesoro. Scovare un buon libro. La gioia non è soltanto quella di scovare un buon libro o un testo recente e ben tenuto. Il bello è proprio nello sfogliare qualcosa già utilizzato da altri, immaginare cosa hanno provato i lettori precedenti, quali emozioni, quali ricordi sono scaturiti da quelle pagine. Ecco perché io sottolineo molto e a volte indugio in commenti a piè di pagina: se riprendo un testo in mano dalla mia libreria, dopo anni, sorrido felice dei miei commenti che richiamano sensazioni provate in precedenza o mi stupisco per cose dimenticate. Questa fortuna si moltiplica in Edicolibro, dove puoi lasciare un tuo libro sottolineato e commentato e prenderne un altro; dove talvolta non recuperi nessun commento scritto, ma parli direttamente con il proprietario del volume, che lo deposita lì e te lo consiglia con entusiasmo o ammette di volersene liberare. Ma Edicolibro è questo: uno scambio a tanti livelli e quello dell’oggetto è certamente il più banale. Siamo lì, tra le 15 e le 20 volte al mese, ad aspettare i nostri “clienti”, tanti habitué, tanti passanti, tanti turisti. Ci passiamo libri, idee, commenti, emozioni, ricordi. Non sempre gli scambi sono all’altezza: c’è chi porta un libro di cucina e si prende, che so, un Camilleri. Ma non importa, quel qualcuno è uscito di casa per venirci a trovare, per fare due chiacchiere e per condividere un pezzetto di sé e portarsi via il ricordo di un altro. E allora edicolibristi vi invito a mettere un breve commento sul testo che consegnate, così ci portiamo a casa un’emozione in più rispetto a quella che ci voleva trasmettere l’autore. Edicolibro va avanti. Vi aspettiamo in Edicola con testi che vi siano piaciuti e che volete regalare al destino di un’altra persona. Vi aspettiamo per mettere l’annuncio di un libro che state cercando. Vi aspettiamo negli orari che trovate sulla pagina Facebook o durante le iniziative che organizziamo per incontrarvi e conoscervi. Edicolibro va avanti. EDICOLIBRO, piazza della Meridiana, Genova.
Di Elisabetta Marasco. Circa un anno fa ho lanciato la proposta di un gruppo di incontro che si raccontasse e confrontasse sulle motivazioni della scrittura. Dovevano essere inizialmente tre incontri, andammo avanti fino a giugno. Ci siam rivisti a settembre… Rilancio così quest’anno l’iniziativa, per un nuovo gruppo, che si porrà nuovi interrogativi e nuove scoperte. Perché scrivo? Chi frequenta Officina Letteraria sa che da questa domanda inizia il percorso di consapevolezza e di formazione dell’allievo/scrittore. Tanto che Officina stessa custodisce gelosamente le risposte, e l’alternanza e la riproposizione della risposta e della domanda ai singoli allievi vanno a costituire dei punti di passaggio nel percorso formativo. Dietro a questo piccolo interrogativo (solo due parole!) si ingarbuglia, dipana e articola una infinita varietà di scelte, bisogni, aspettative, competenze, capacità, emozioni, pensieri, azioni, memorie, punti di vista, moltiplicate per tutte le persone, differenti per età, vissuti, esperienze che si trovano a frequentare un luogo (in questo caso lo spazio di via Cairoli) accomunate dal desiderio di alimentare, far crescere e dare spazio all’esperienza della scrittura. Il gruppo di incontro. Curiosamente anche per coltivare una pratica intima come la scrittura siamo istintivamente portati a cercare un luogo di formazione, non solo per apprendere, ma per condividere, perché nella specificità dell’aula l’esperienza del gruppo ha rimandi significativi per i singoli. Ma allora, mi viene da pensare, se questo spazio di confronto e condivisione ha una sua valenza può anche avere un suo luogo. Un suo orario. Un suo gruppo, che non ha bisogno dei criteri legittimi della formazione, ma nel quale si possono incontrare le persone che frequentano i corsi da anni, come i nuovi arrivati, chi frequenta i laboratori e chi il corso sul romanzo, chi ha già un libro nel cassetto, chi si sorprende ogni volta che gli esce una frase dalla penna. Anche persone che non si sono mai avvicinate ad Officina, com’è in parte accaduto dello scorso anno. Chi sono. Mi chiamo Elisabetta Marasco, e propongo un gruppo a tema dal titolo Perché scrivo? dove incontreremo gli altri, e forse anche un po’ noi stessi. Sono un counselor a mediazione corporea e collaboro ormai da qualche anno con Officina Letteraria. Partendo dal lavoro delle Classi di esercizi di Bioenergetica, ho intrapreso un percorso di ricerca sul processo creativo come opportunità per muovere energie, porci in una migliore connessione con noi stessi, migliorando così la qualità di vita, per noi, in relazione con gli altri e di conseguenza con un impatto positivo sulla società, aspetto da non trascurare. Come partecipare ai gruppi di incontro. La partecipazione al gruppo a tema Perché scrivo? richiede alcune semplici norme di cortesia: puntualità, riservatezza, e nei limiti del possibile volontà di presenziare agli incontri. Si svolgerà il martedì sera alle 20:30, due volte al mese, ha una durata di due ore complessive e ha bisogno di un numero minimo di 6 partecipanti. Occorre iscriversi entro una settimana dall’inizio, contattando il numero 338 4478930. Il primo incontro sarà Martedì 5 Marzo alle ore 20:30 presso Officina Letteraria, via Cairoli interno 4. Servirà al solito anche da orientamento e conoscenza per chi partecipa, e per stabilire il grado di interesse. Per informazioni: + 39 338 44 78 930 Io ci credo un sacco. Spero anche voi.
Il progetto di Cecilia Campani Ho aggiunto gli ultimi dettagli poco fa, finalmente ho finito il progetto. O almeno, ho finito di disegnarlo. Mi è arrivato l’ordine di costruire una cosa del genere una settimana fa, non ci ho messo neanche tanto. E’ stato difficile capire inizialmente come strutturare la cosa, ma credo di aver trovato il giusto compromesso. Sono delle docce, un po’ particolari. Il profilo della doccia classica è in ceramica, colorato alle volte. Queste le ho dovute fare in metallo: al passaggio del gas non avrebbe retto se no il materiale. Il tubo l’ho di collegamento l’ho fatto sottile mentre il soffione l’ho fatto un po’ più grosso, se no risultava inutile. Il tubo di collegamento dovrebbe proseguire al di sotto del pavimento, non era necessario una piazzola con il buco di scarico quindi l’ho omessa. Prosegue nel pavimento fino alla cabina energetica che lo alimenta. Accanto a essa vi sono i serbatoi: ne ho aggiunti alcuni, magari non bastano. Il resto non era di mio compito ma ho sentito i miei colleghi e dovrebbero aver quasi finito gli ultimi pezzi. Il nome tecnico delle cabine è motori, quello dei serbatoi generatori e le docce le ho nominate scaricatori. Il gas non l’ho scelto, non sta a me tale scelta. E’ stato molto divertente lavorare a questo progetto: uno potrebbe pensare sia una bazzecola per un ingegnere ma non è pr niente così. I primi giorni a ogni aggiunta spuntavano problemi di diverso tipo, sui materiali, la grandezza, l’utilità dei pezzi, la loro posizione. Un lavoro faticoso, molto, ma soddisfacente, molto, ora che l’ho finito. Il capo sarà proprio contento della mia efficienza e velocità. Forse riuscirà anche a togliermi questo dubbio: perché le docce a gas gli servono? Cioè, quelle a acqua lavano, ma queste?
Rom, un uomo di Claudia Badaracco L’estate stava terminando quando in città arrivò una comunità rom. Svernavano nelle periferie urbane, separati da una società di cui non volevano fare parte, ma che poteva fornire un folto pubblico per i loro spettacoli. Ricordo che raggiunsero Trieste una tarda mattinata di inizio settembre. Lavoravo vicino al luogo da loro scelto e vidi che iniziarono subito a montare i loro tendoni. Mi fermai a osservarli. La loro cultura, per quanto diversa dalla mia, mi affascinava. I loro volteggi nell’aria suscitavano in me il desiderio di una leggerezza capace di smorzare le rigidità del mio carattere. Immerso in questi pensieri, soffermai il mio sguardo su una figura in lontananza, asciutta e agile: era certamente un acrobata. Si avvicinò e mi colpì l’espressione pacata, ma sicura di sé che trasmettevano quegli occhi neri e sottili. Mi salutò cortesemente con un cenno. I giorni passavano e arrivammo a scambiare anche qualche parola. Si chiamava Stevan. A poco a poco capii che tutte le tradizioni della sua comunità, dalla musica al viaggio costante, esprimevano un anelito di libertà. La libertà di movimento, tuttavia, era per loro destinata a terminare presto. L’undici settembre, infatti, il governo fascista diede disposizioni per internare tutta la gente come lui, ritenuta “geneticamente criminale”. Dopo qualche giorno non vidi più Stevan né nessuno dei suoi. Vidi che il loro accampamento era deserto e compresi che non erano riusciti a fuggire, ma che erano stati vittime di una legge assurda. Passò un anno e anche a me, oppositore politico, toccò di essere internato. Mi mandarono a Birkenau. Mi spogliarono di tutto. Mi rasarono capelli, barba e peli, tatuarono sulla mia pelle un numero che porto ancora, indelebile. Mi costrinsero a indossare una divisa a righe. Tutto era indistintamente avvolto da una aura grigia di morte. Qualcosa cambiò un giorno. Mi spostarono in una baracca vicino al settore E del campo. E lì, oltre il filo spinato, la vita sembrava diversa. C’era qualcosa che mi era familiare. Vidi che lì erano rinchiusi i Rom e i Sinti. Diversamente dagli settori del campo, lì si trovavano riuniti insieme uomini e donne con i loro figli. Avevano mantenuto i loro abiti e i loro strumenti, con i quali, a dispetto della condizione in cui si trovavano, davano voce alla nostalgia di una libertà che li aveva sempre contraddistinti. Con la loro musica e le loro danze sapevano rimanere in equilibrio in quel mondo letale. Li osservavo e loro sapevano, come un tempo, infondermi il desiderio di una vita diversa. Ma in una notte, tremenda, anche tutto questo finì. Bastarono solo due ore, bastò una decisione di chissà quale pazzo. Improvvisamente sentii cani abbaiare, bambini piangere, donne e uomini strepitare spaventati e poi dolenti. Seguì un silenzio assordante. Il giorno successivo il fumo che usciva dai forni crematori era ancora più nero. Per un attimo il mio pensiero andò a Stevan. Caro mio, nella tua lingua “rom” significa “uomo” e la tua gente non ha mai smesso di esserlo.
di Marcello Mistrangelo I triangoli rosa sono per i pederasti. Ne servono tanti. Si prende una fettuccia già tinta e si taglia in diagonale, prima in un senso e poi nell’altro. Si riprendono poi i bordi perché non si sfilaccino, ma velocemente. Non bisogna perdere tempo, non è alta confezione. Sono solo marchi con cui identificare che veste la divisa. Però è importante la fase di tintura, che il colore sia di qualità e non sbiadisca. Perché giallo è per gli ebrei, rosa per i pederasti, ma rosso per i dissidenti politici. Non deve sbiadire. Un criminale politico non è comunque un sodomita, c’è diversità anche fra i diversi. Il cerchio rosso va cucito dietro, tra le scapole. Identifica chi è stato scoperto a voler scappare. Deve aiutare il soldato di guardia a prendere la mira, se il prigioniero si mettesse a fuggire. Questa commessa ha portato molto lavoro alla sartoria, siamo grate. Era una piccola ditta e la gente ha risparmiato tanto sui vestiti in questi ultimi decenni. Hanno campato a fatica, i padroni, per tenere aperto e riconoscere un po’ di salario a noi operaie. Ripeto, è molto importante la qualità della tintura. Perché nero è per i capi dei prigionieri, marrone per gli zingari. Non è la stessa cosa. Ci sono diversi migliori di altri diversi, in qualche modo. Giallo e blu sono i colori da comprare in maggior quantità, e di buona marca. Perché giallo sono gli ebrei, e blu gli spostati. E sono la maggioranza di coloro a cui danno lavoro, in quei campi.
Grete e Anne di Patrizia Minetto Il Dr. Franz mi deve parlare. Me lo ha mandato a dire da mia madre. E’ più di un medico per noi, un amico, una persona cara. Ha detto che deve parlarmi di una cosa molto importante che riguarda Anne. Ma non so niente di più. Anne è una bambina malata. Ora ha sei anni. Ha un gigantismo cerebrale, così mi dicono. E’ nata grande, troppo grande, con la testa enorme. Non sapevo come fare. Piangevo, piangevo, la guardavo e pensavo che era mostruosa. La baciavo sulla fronte per calmare il suo e il mio pianto. Non ha fatto tutto quello che fanno i bambini della sua età e mai ci riuscirà. Anche Franz me lo ha detto. È ritardata. Poverina. Forse ci sarà qualche notizia per me. Ci spero, ho sentito dire che sono stati aperti dei nuovi centri che studiano le malattie genetiche. La medicina sta facendo passi da gigante. Che emozione! Anche la mia piccola Anne forse è stata scelta per partecipare a questi studi nuovi. Me ne ha parlato la mamma di Frederick, Frieda. Anche lei ha un bambino malato. Ha una malattia diversa da quella di Anne ma anche lui non parla, non capisce proprio tutto. Anche lui, dice Frieda, ha una malattia ereditaria. Mi sono documentata e ho letto che c’è un nuovo filone di studi chiamato eugenetica che si interessa proprio alle malattie ereditarie e che illustri medici incaricati da Hitler in persona, stanno studiando nuove cure. Chissà se anche Anne è stata scelta. Frieda ha acconsentito alla somministrazione di queste nuove cure per suo figlio e mi ha raccontato che sono pericolose. Mi farò spiegare bene dal Dr. Franz quali sono i rischi. Anche un piccolo miglioramento sarebbe meraviglioso per Anne. Piccola mia, la immagino magari giocare con gli altri bambini. Un sogno! Frieda va a trovare Frederick ogni volta che può e so che le è dura stare lontano da lui. Non so se potrei stare lontana da Anne, non ci siamo mai separate, ha bisogno di me. Qualche giorno fa Frieda mi ha detto che Frederick è stato trasferito. Ora è in un altro centro più lontano. L’ho vista molto triste. Mi ha detto che le avevano scritto una lettera ma che ancora non le sapevano dire dove si trovava. La lontananza si può superare se la speranza di una vita migliore per tuo figlio esiste. Sì, posso farcela anche se dovessimo vederci poco per qualche tempo. E poi andrei a trovarla anche fosse in un ospedale più lontano. Sono tanti i bambini che sono stati scelti per ricevere queste nuove cure ma per ora non tutti. Mentre cammino penso a come starei senza Anne e quanta paura se dovesse capitarle qualcosa. Addirittura morire. Mi hanno detto che con queste cure i bambini possono morire. A volte gli devono fare anche una dieta particolare, chiamata dieta E . non so di cosa si tratta ma so che fa parte di questi nuovi metodi che la medicina sta sperimentando. Mentre uso la parola sperimentando mi sento male. Penso che nessun bambino neppure il più malato possa essere trattato come una cavia ma poi penso che tutte le cure nuove, proprio come i vaccini, possono essere pericolosi e all’inizio vengono sperimentati, Si, speriamo che ci sia una speranza anche per Anne. Cammino verso casa e il mio passo, non so perché, sta accelerando e così anche il battito del mio cuore. Il passo si sta trasformando in una corsa. Un brivido mi percorre. Avvicinandomi a casa sento mia madre, mio marito, sento le loro voci. Sono per strada fuori dalla porta. Intravedo le loro sagome ma non vedo quella di Anne. Dov’è ? il cuore in gola, corro sempre più veloce. Anne. L’hanno portata via. Non l’ho salutata, non ho firmato niente. Un foglietto nelle mani di mia madre con il nome dell’ospedale dove la porteranno. Non ho scelto. Non avevo deciso. Volevo sapere. Non avevo deciso. Perdonami bambina mia. Ti troverò. Perdonami .
Ester che ama una donna di Nadia Carì La amo. Ci amiamo. Ci amiamo di un amore che per noi è sincero, ma anche puro. Cosa che non è, oggi, agli occhi del mondo. Ma cosa esiste di più bello, nel creato, dell’amore? E chi lo ha detto che l’unico amore possibile debba essere solo quello tra un uomo e una donna? Se il sentimento dell’amore è proprio di ogni uomo e ogni donna, e ognuno di loro ha nella sua disponibilità quel meraviglioso sentimento, esso può poter essere elargito a qualcun altro che lo ricambi. A chiunque altro. E allora che differenza può mai fare se io, donna, esprimo il mio, verso un’altra donna? E se un’altra donna fa lo stesso, con me? E noi ci amiamo di un amore sincero e puro. Come solo il VERO amore, può essere: PURO E SINCERO. Io, Ester, lesbica ed ebrea. Questo, per il mondo in cui vivo è un binomio inaccettabile. Oh, non è che essere “solo” lesbica, o “solo” ebrea, non sia un problema nel mondo in cui vivo. Il mondo in cui vivo non è il mio mondo.
Ero solo un farmacista di Elena Gallia Ero solo un farmacista, oggi sono criminale Da quel momento divenni responsabile dell’approvvigionamento e della formulazione di nuove preparazioni a base di morfina, scopolamina, luminal e verolan. Mi chiamo Albert Keller, sono nato nel 1901 nel distretto di Wiesbaden. Ho studiato chimica, come mio padre e prima di lui mio nonno, per diventare farmacista e rilevare l’attività di famiglia. Mio fratello maggiore è morto durante la grande guerra, mia sorella è entrata in seminario per divenire suora di clausura, quindi in un certo qual modo sono rimasto l’unico figlio. All’età di sedici anni mi è stata diagnosticata una distrofia della retina all’occhio destro, che mi ha impedito di entrare nell’esercito, fanteria, come è stato per mio fratello. Nel 1924 mi sono sposato e mia moglie ha dato alla luce 4 bellissimi bambini, Alfred, Erich, Helmut e la piccola Annette. Era il 4 marzo del 1936 quando mi venne recapitata a casa una lettera dal Ministero della Sanità, nella quale mi veniva richiesto di prendere servizio presso il centro di Eichberg come responsabile chimico-farmaceutico. Dal 1936 al 1940 la Farmacia Keller venne gestita ad orario ridotto da mia moglie, mentre io tutte le mattine dal lunedì al sabato, timbravo la presenza presso l’Istituto di Salute Pubblica. Dapprima mi venne chiesto di riorganizzare i magazzini, inventariando e trovando nuovo destino ai farmaci scaduti. In un secondo momento mi venne chiesto di firmare un plico di documenti nel quale garantivo segretezza e discrezione circa il mio operato al servizio del governo. Da quel momento divenni responsabile dell’approvvigionamento e della formulazione di nuove preparazioni a base di morfina, scopolamina, luminal e verolan. Ogni settimana arrivavano ricarichi di materia prima, era quindi mio compito saggiarli, stoccarli e via via formularli in mono-somministrazioni iniettabili. Avevo a disposizione un laboratorio non più grande di 12 metri quadri, adiacente a un magazzino grande tre volte tanto. Trascorrevo le mie giornate li dentro, scandite da 4 campane. La prima del mattino all’arrivo del carico. La seconda a distanza di circa tre ore, per il ritiro del primo lotto di siringhe. In 2 ore riuscivo a preparare all’incirca 30 mono dosi. La terza a metà giornata indicava la pausa pranzo. E con l’ultima veniva ritirata la seconda tornata. A quel punto potevo rientrare a casa. Non mi era concesso di parlare con nessuno, non disponevo di nessun collaboratore. Gli stock di monodose pronti all’uso dovevano essere lasciati al suono della campana sul carrello metallico dell’anticamera. Sarebbero stati recapitati pochi minuti dopo da un’infermiera. Per molto tempo non conobbi il destino di quelle fiale. Un giorno chiesi al mio superiore, l’uomo che in origine mi fece firmare le carte, e rispose che l’ospedale aveva aumentato i posti letto accogliendo pazienti in fase terminale. La mattina dovevo entrare dalla porta sul retro, quella dell’ala nord ovest, e dovevo obbligatoriamente accedere al mio laboratorio attraverso le scale interne. Non mi era permesso transitare per i corridoi, accedere ai reparti. Dissero per ragioni di sicurezza e riservatezza. Venni a sapere per caso. Non si accorsero che la porta dell’ultimo bagno in fondo era chiusa e che in quel momento non mi trovavo in laboratorio. Stavano in piedi davanti all’orinatoio con l’uccello tra le mani. – Nelle ultime due settimane abbiamo avuto 32 decessi e nessuno dei genitori può sospettare non si tratti di morte naturale. Quelle iniezioni discrete sono miracolose, la polmonite è salvifica .- Scrollarono l’uccello, chiusero i bottoni e risero come rapaci appagati. Dopo allora ricordo solo la puzza di vomito tra i piedi.
Diversa di Cristina Colombo Bolla Non avrei mai pensato che la mia ribellione giovanile si potesse concretizzare in una stella gialla. “Io sarò diversa” era la mia frase preferita, quella che concludeva la discussione, quando litigavo con i miei genitori e uscivo dalla stanza sbattendo la porta. Ora lo sono davvero – diversa – ma come hanno deciso loro, non come intendevo io. Mi sentivo diversa perché a diciotto anni volevo continuare a studiare invece di accasarmi con un marito scelto dai miei genitori e crescere pargoli. Invece mi hanno detto che non potrò più andare a scuola, nè tantomeno iscrivermi all’università. Mi sentivo diversa perchè avevo cominciato a lavorare come cameriera in un ristorante per guadagnare qualcosa per i miei studi. Invece mi hanno licenziata, perchè il ristorante ora è riservato agli ariani. Mi sentivo diversa perchè alla sera non stavo chiusa in casa a ricamare e pregare come mia madre ma uscivo con i miei amici e andavamo a ballare. Ora non è più possibile. Molti di loro non mi possono più frequentare ed il buio è diventato pericoloso perché questa stella gialla brilla più di quelle nel cielo e rischio di essere aggredita e insultata senza che nessuno muova un dito per difendermi. Volevo essere diversa e ora vorrei solo urlare: “Non mi riconoscete più? Sono sempre io, sono la stessa di prima. Che cosa è cambiato? Che cosa ho fatto di male? Io sono uguale a voi”.
Famiglia mista di Silvia Casaccio Mio marito è di razza ariana, io sono ebrea. Il nostro è un matrimonio misto privilegiato, come lo definiscono loro. Non sono stata costretta ad abbandonare casa né i nostri figli e portare la stella, ma i vicini non ci rivolgono più la parola e siamo isolati. A me non pesa, mi ferisce il comportamento di Frank che mi costringe a stare lontana dalla mia famiglia. “E’ pericoloso, non possiamo fare mosse false” dice lui. Protegge i nostri figli. Frank mi riferisce che al lavoro i colleghi lo ignorano. Li sente parlare della nostra situazione. Lui non ha il coraggio di affrontarli. Non è mai stato un uomo coraggioso e si fa forza attribuendomi delle colpe. Non apertamente ma coi fatti: cenando in silenzio, non guardandomi negli occhi, non sfiorandomi. Sono sempre io! Vorrei gridarglielo ma le parole mi si strozzano in gola e scoppio a piangere. Ottengo così solo il suo biasimo. Avrei dovuto ascoltare mio padre quando mi diceva di non sposarlo “non è l’uomo per te”. Io però ne ero innamorata. Le persone appaiono migliori quando non ci sono criticità. Con mia madre ci scambiamo delle lettere. Le nascondiamo ogni volta in un posto diverso. In ogni nostra corrispondenza c’è l’indicazione di dove si trova il messaggio successivo. Frank non sospetta nulla. I miei genitori se la passano male, sono senza lavoro nonostante siano due medici stimati. Almeno prima. Ora praticano la professione di nascosto e solo per gli ebrei come noi. Sono stati costretti a vendere i quadri e le porcellane per pochi soldi. Patiscono la fame, mia madre è molto dimagrita anche se non lo ammette. I vestiti gli stanno grandi. Potessi abbracciarla, dirle quanto le voglio bene, portarla via dalla Germania. Non esiterei a lasciare tutto e tutti ma il tempo per fuggire ormai è passato, lasciandoci increduli e senza speranze.
La moglie di un soldato tedesco di Sabrina Branchi Franz dice che è giusto, bisogna farlo per il bene della patria, per la nostra Germania. Come ogni mattina gli ho lasciato la divisa pulita sopra il letto. Quando non la indossa sembra diventare un’altra persona, un padre amorevole che gioca ai soldatini insieme a nostro figlio Thomas. Gli racconta che la sua uniforme è magica perché l’aiuta a sconfiggere gli orchi malvagi. Gli è sufficiente metterla indosso per diventare ancor più forte e coraggioso sebbene non sia lui a dettare le regole. È una guardia ubbidiente e responsabile, qualunque gesto o azione gli vengono ordinati di fare procede senza biasimare perché è un bravo soldato e come tale non si fa troppe domande, non ricerca inutili spiegazioni. Deve soltanto agire in un certo modo, in quel modo considerato da chi sta ben al di sopra di lui come l’unica soluzione possibile ed efficace. Thomas lo ammira e vorrebbe poter avere anche lui una divisa dai simili poteri così da diventare ubbidiente quando mi fa arrabbiare. Ogni sera quando torna a casa il mio caro marito mi bacia sulla fronte, accarezza il viso del nostro bambino e poi ci mettiamo a tavola per cenare. Ogni tanto senza che se ne accorga lo osservo e mi viene in mente proprio la sua favola dell’uniforme magica: “Chissà a quante persone quella bocca calda e carnosa che mi bacia alla mattina e alla sera avrà urlato, umiliato e sputato contro? E le sue mani grandi e forti che fa scorrere lungo la mia pelle nei nostri momenti d’intimità quante frustate avranno dato? Quanti individui avranno impiccato? A quanti esseri umani avranno sparato? Non lo so, meglio non sapere; preferisco pensarla anch’io come la fiaba dell’eroe che salva il suo popolo dai mostri cattivi. Adesso sono stanca e per giunta ho mal di piedi per via di quel paio di decolté nuove. Finisco di riassettare la cucina, metto a dormire il mio piccolo e mi distendo sul divano accanto a Franz.
Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, uno spettacolo itinerante di parole, musiche e installazioni, ci aiuterà ancora una volta a riflettere su quanto accaduto, sulla necessità di ricordare, di mantenere vivo il passaggio di generazione in generazione della conoscenza dei fatti, delle conseguenze, del grado di disumanità che è stato possibile e che è sempre potenzialmente ripetibile. Una responsabilità, quella della memoria, che ci coinvolge tutti. Lo spettacolo Lo spettacolo si intitola Countdown ed è organizzato da Arcigay con la collaborazione dell’Accademia Linguistica di Belle Arti, dell’Università di Genova e di Officina Letteraria Gli allievi di primo livello, insieme ad alcuni maestri di Officina e scrittori genovesi, hanno scritto i testi dello spettacolo. Gli allievi del laboratorio Grammatica delle Storie, condotto da Emilia Marasco, sono: Sabrina Branchi, Claudia Baldracco, Cecilia Campani, Nadia Carì, Silvia Casaccio, Cristina Colombo Bolla, Elena Gallia,Patrizia Minetto, Marcello Mistrangelo. Hanno lavorato su alcuni passaggi dello studio “The ten stage of genocide” di Gregory H. Stanton. Hanno scritto brevi, a volte brevissimi monologhi, e ne hanno prodotti più di quanti servissero per lo spettacolo per entrare profondamente in un clima. I racconti Ne pubblichiamo alcuni, fino al 27 gennaio, come nostro piccolo contributo al Giorno della Memoria. Quelli selezionati per lo spettacolo sono sul sito www.omocausto.it Leggi i racconti. Dove e quando? Lo spettacolo sarà domenica 27 gennaio 2019 alle 17.30 all’Albergo dei Poveri, piazzale E. Brignole, Genova.
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