Quarto racconto del nostro laboratorio estivo di Apricale 2016.

Un gioco di ruolo narrativo durato cinque giorni.

Ciascuno dei personaggi, delineati con una sorta di “binomio fantastico”, aveva il compito di scoprire e raccontare la storia di uno degli altri personaggi. Come? Scopritelo leggendo il racconto del cavaliere inesistente!

Il cavaliere inesistente (oppure no) e il vecchio musicista (oppure no)

di Manuela Romeo

Non è il gatto parlante a sorprendermi: ne è piena la letteratura. Non è l’austerità della pietra grigia a incutermi soggezione: mi fa sentire a casa. Non è il canto lontano delle rane a turbarmi: di acquitrini sono piene le campagne battute dai cavalieri, la loro nenia mi rasserena.

A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono.

A crearmi imbarazzo è qualcosa che non comprendo. Quale incantesimo mi ha condotto qua? Non so più chi sono. Mi trascino in salita tra le case che il tempo ha gettato come per scherzo, a manciate, sui colli intorno a me. Dame e baroni, contadini e artigiani, cavalieri di tutti i tempi devono essere passati di qua. E anch’io, che mi porto addosso il peso di un’armatura che mi schiaccia le ossa che non ho. Dentro questo involucro di ferro che emette suoni striduli, io sono vuoto, disfatto, consistente di niente. Non che io sia frivolo o privo di sostanza e significato: sono un cavaliere ricco di idee e curiosità. Ad esempio un paio di giorni fa, nell’ora del tramonto, proprio qui, davanti alle grandi fontane della piazza, un tale dall’aria misteriosa ha attirato il mio interesse. C’era qualcosa di severo e malinconico nel suo portamento.

Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo.

Quasi pelato, sull’ottantina, se ne stava seduto a un tavolo della Ciassa con le gambe accavallate, cellulare in mano, ogni tanto allungava le braccia e le incrociava sul petto o dietro la nuca. Non riusciva a star fermo.
Si guardava intorno, non rideva, né sorrideva, la sua bocca conosceva solo la smorfia del beffardo seduttore. Fingeva premure nei confronti degli occasionali interlocutori ma accendeva uno sguardo che diceva “Che ne sai della mia vita? Sono mica uno qualunque io. Vengo dritto dritto da un set di Hollywood e posso legarti a me in un istante, per la vita, fosse anche per un mio capriccio. Fai bene a temermi, potrei diventare la tua ossessione”.

Corteggiava tutte le donne del paese, di tutte le età, ma esibiva con più evidenza una seduzione nei confronti di se stesso, in fondo era innamorato pazzo solo della propria arte. Lo manifestava canticchiando arie d’opera, muovendo le belle dita sul muretto come sulla tastiera di un pianoforte e mimando, occhi chiusi, la direzione di un grande concerto per orchestra. Ce la metteva tutta perché voleva piacere e giocava tutte le sue carte per catturare l’attenzione altrui.
Non aveva conquistato la mia simpatia, ma di certo la mia curiosità. Era un personaggio sui cui valeva la pena indagare o che poteva fornirmi indizi utili per fare chiarezza su che cosa facessero un cavaliere inesistente e un vecchio sciupafemmine in un posto come questo.

Così, stamani, rieccomi sulla piazza del borgo a fissare il castello sonnolento e la torre col suo orologio severo. Prima o poi, il mio uomo passerà di qua.
Il gatto parlante attraversa la piazza senza parlare, mi strizza l’occhio. Che mi legga nel pensiero?
Eccolo, il mio uomo, appare all’improvviso come il primo violino di un’orchestra e avanza immaginandosi gli occhi di una platea infinita addosso.
“Per caso ha visto vagabondare un gatto nero?”, la voce è chiara, ma non profonda. Che sia un tenore? Mi chiedo.
“Da ieri avrò incontrato almeno una decina di gatti, almeno cinque o sei erano neri. Forse lei si sta riferendo a un gatto in particolare, con qualche caratteristica curiosa e insolita?”, chiedo al mio interlocutore che si avvolge in un unico gesto solenne e deciso nel suo anacronistico mantello di raso.
“Beh, sì, insomma, trattasi di un gatto speciale, potrei dire magico.”
“Ma certo, caro signore, questi, si sa, sono luoghi in cui tanto tempo fa streghe e megere furono perseguitate, processate e massacrate o arse vive sotto gli occhi della folla crudele, bramosa di atrocità e fatti di sangue. Queste creature del demonio, si dice, si sono poi impossessate delle anime dei gatti neri e le hanno moltiplicate nel fluire delle generazioni”.
“Già, ma il gatto che cerco io è buono e simpatico” dice “La sola cosa che lo distingue dagli altri gatti è che, se gli gira, ha un mucchio di storie da raccontare.” Il mio uomo ora è sceso dal podio della sua solitudine, si guarda attorno sornione. “Eccolo”, esclama ad un tratto. “E’ quel gattone laggiù, proprio ora sta inarcando la schiena e sta stiracchiandosi. Lo vede?”
Avevo bisogno di quel gatto, creatura buona o malvagia che fosse: era l’unico che potesse aiutare sia me, sia il mio nuovo compagno, un vecchio musicista oppure no. Quel diavolo d’un gatto mi passa davanti muovendo le anche come un divo e pretendendo attenzione.
“Vuole che lo seguiamo, ci porterà in qualche luogo segreto e magico, vedrai. Dai, andiamo”, non esisto, ma so trovare un timbro di voce convincente, all’occorrenza.
Il presunto vecchio musicista sembra non aver notato che sono un’armatura senza uomo, gli sembra normale il vuoto che mi riempie, il niente che mi appartiene. Sa guardare oltre, si vuole fidare di me, perché anche lui ha bisogno di andare in fondo a questo mistero. Ci incamminiamo fianco a fianco, io cigolando lui intonando una qualche melodia, prendendo la salita ripida e disconnessa che conduce in cima al paese, dentro il grappolo di case.

Non incontriamo nessuno lungo il sentiero, non udiamo voci, non si aprono porte o persiane. Anche i fantasmi stanno attenti a non essere maldestri, in nascondigli umidi e dimenticati. Il gatto è sparito, forse ha spiccato un balzo nel nero di qualche vicolo laterale.

All’improvviso una voce sottile e soave. Una nota. C’è un pianoforte da qualche parte.

All’improvviso una voce sottile e soave. Una nota. C’è un pianoforte da qualche parte. Ancora una nota, poi un’altra. Provengono da qualche camera, lassù, tra i tetti inarrivabili. Un’intera frase musicale, e un accompagnamento, una melodia si va definendo e si compie. Con il desiderio di andare avanti, come un bacio.
Il vecchio musicista si blocca. Io bado bene a non muovermi, non voglio stridere e rovinare l’incanto coi miei rumori grossolani.
“Notturno per Giulia.”, sussurra il musicista, e le parole suonano come poesia.
Poi lacrime si insinuano dentro le rughe, sole e zitte. Io aspetto, sento che si è rotto qualcosa, e che la primavera sta per rifiorire in quell’uomo, da qualche parte.
Si libera del mantello, come di una maschera, si accuccia su un gradino, si fa piccolo come un bambino. Che cosa sta succedendo? La musica ha rinvenuto un coccio di passato nel suo oblio? Perché ora piange? Chi è Giulia? Vorrei porre a lui tutte queste domande, ma non trovo la forza, lui nasconde il volto tra le mani grandi.
Decido di lasciarlo solo. Oltrepasso una delle antiche porte della cittadina, alla ricerca di un passaggio che mi conduca all’origine di quella musica. Le note sembrano più vicine, mi lascio guidare dall’ascolto. Forse il mistero sta svelandosi. Un vecchio cancelletto, alcuni gradini ricoperti da erba dimenticata, un piccolo porticato di pietra nuda. Seguo le note, loro sanno trascinarmi con passione e dolcezza. Chi sta seduto al pianoforte? Una donna, piccola, dalla pelle chiara, doveva essere incantevole mezzo secolo fa, è ancora bellissima. Le sue dita si muovono sulla tastiera con l’agilità di mani giovani, conoscono il pezzo a memoria. Non riesco a trattenermi, mi avvicino al piano, a lei, e quel nome annodato in gola esce da sé.

Lei si ferma all’istante, non esegue una nota di più, solleva le mani morbide e si volta: “Che c’é?”
Comprendo in un attimo ogni cosa e corro da lui. Lo ritrovo dove lo avevo lasciato, mi guarda senza esitare, vuole dirmi qualcosa.

Era una ragazza di Apricale, faceva la tessitrice. Una sera, durante una festa di paese, mi confidò che stava tessendo per me,mi avrebbe fatto una sorpresa.

“Era una ragazza di Apricale, faceva la tessitrice. Una sera, durante una festa di paese, mi confidò che stava tessendo per me,mi avrebbe fatto una sorpresa. Così io, che non pensavo che ai suoi capelli di seta, alla sua pelle di latte, composi il “Notturno per Giulia”. Eravamo giovani e ci amavamo con semplicità, senza saperlo, dentro la freschezza e il candore dei nostri sogni di adolescenti. Non seppi mai che cosa avesse tessuto per me, quale motivo o disegno avesse creato, né mi fu possibile donarle la mia composizione”.
“Io so perché sei tornato. Non volevi andartene da vecchio e arido cinico quale sei diventato, e, giunto quasi alla fine del tuo viaggio, hai desiderato ritrovare la parte autentica della tua vita, quella pulita, la sola in cui il desiderio cresceva spontaneo. Lo senti? Sta tutto in questa melodia: si trova in queste note ciò che hai cercato per il resto della vita. Solo nel borgo di Apricale, in quella casa lassù, tra le dita di Giulia ”.

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